In pochi si sono accorti di una peculiarità storica del conflitto ucraino: dai giorni immediatamente seguenti all’invasione Russa le due parti hanno intavolato negoziati pressoché quotidiani.

Non si ricorda nessuna altra guerra del Novecento in cui un tale accanimento sul campo di battaglia fosse contestuale a quello attorno a un tavolo nella ricerca di una soluzione extra militare. Il fenomeno ci pone domande estremamente utili.

Se, come sembra, stiamo vivendo i prodromi di un nuovo assetto mondiale, allora quanto sarà importante la mediazione nei processi con cui andremo a costruirlo? E come ci dovremo confrontare con visioni che oggi sembrano molto differenti dalla nostra idea di progresso?

Un negoziato non è solo la ricerca di un punto di equilibrio tra interessi diversi. Il primo risultato di una trattativa è che la controparte può essere il nostro avversario più ostico, avere desideri inconciliabili, ma, con il fatto stesso di averlo accettato come interlocutore, ne riconosciamo l’identità e la dignità d’esistere.

Questo reciproco riconoscimento dell’altro come distinto da noi è alla base di quella che chiamiamo “cultura della convivenza”. Riusciremo a costruire una nuova globalità capace di una riconversione e ricomprensione tra gli attori della scena mondiale solo ammettendo che ciascuno ha una propria espressione di pensiero.

Negli ultimi trent’anni ci siamo cullati nel sogno di quell’unipolarismo strategico, economico e politico. Gli Stati Uniti avevano vinto la Guerra fredda, la storia intesa come tensione verso l’egemonia mondiale era finita, non restava che dedicarsi a rendere funzionale il modello economico globale per sostenere la diffusione naturale della democrazia liberale.

Nel nome di questa missione, l’unipolarismo è diventato dunque culturale, immaginando la democrazia liberale come unica e l’ultima espressione della relazione umana. Le società che non la adottavano venivano liquidate come marginali. La mancanza di adesione a questo modello era un virus deviante che minava il progresso umano.

Su questo altare la democrazia è stata idealizzata, diventando il modello metafisico della società perfetta. E come tutte le metafisiche si è dimostrata totalizzante. Era inevitabile che un modello così assoluto andasse in crisi di fronte ad un progresso umano che è basato invece sul confronto. La natura di questo pianeta ama la competizione. La nostra scienza deve periodicamente confutare o invalidare le proprie teorie per arrivare a formularne di migliori.

La democrazia non fa eccezione: fino alla caduta del muro di Berlino la parola negoziato tra le superpotenze evocava il confronto tra sistemi di pensiero contrapposti, ma che riconoscevano reciprocamente la propria dignità di esistenza. Ci siamo compiaciuti di summit internazionali tra “grandi” della Terra ma portatori di pensieri equivalenti. Dall’altra parte del tavolo non c’era chi immaginava una diversa idea di mondo, di storia e di futuro.

Società che non erano né marginali, né in ritardo, né dei virus e che presto o tardi avrebbero chiesto in modo “rumoroso” di essere riconosciute.

Ora non possiamo più ignorarle. Abbiamo il dovere di guardare nella loro “alterità”, confrontarci con esse e decidere come agire. Come fare ciò, rimane un dibattito aperto. Ci domandiamo allora se proprio la cultura della convivenza possa fornirci lo strumento adatto per riconoscere la complessità di queste strutture.

La conquista più grande però sarà rinunciare all’illusione culturale che al termine di questa strada ci sia “il premio” di un assetto mondiale stabile, ottenuto grazie alla preminenza di un modello culturale. Se vogliamo davvero un progresso dobbiamo ricordarci sempre quanto gli esseri umani siano molteplici e cangianti. È la loro forza e la loro debolezza.

 

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