La misura del fallimento sta in tre numeri: 88 milioni di dosi consegnate dalle case farmaceutiche, 62 milioni somministrate, 18,2 milioni di persone pienamente immunizzate con due dosi. Il bilancio della politica vaccinale sotto la regia dell’Unione europea è piuttosto misero, per il primo trimestre del 2021.

La presidente della Commissione Ursula von der Leyen ha fatto il punto su quella che doveva essere la risposta comunitaria alla crisi Covid. Certo, qualche alibi c’è: AstraZeneca ha consegnato soltanto 30 milioni di dosi invece che i 120 previsti. E la logistica in molti stati, Italia inclusa, ha faticato a gestire anche le poche fiale disponibili.

Ma è un dato di fatto che la scarsità di vaccini è stata alla base anche di molti problemi logistici: se il numero di vaccinazioni fosse nell’ordine delle 500.000 al giorno promesso per l’Italia da Mario Draghi, e non di 170-180.000, sarebbe quasi irrilevante essere vaccinati per primi, per secondi o per terzi, e saltare la fila farebbe risparmiare qualche giorno. Nel contesto attuale, invece, saltare la fila implica una differenza di settimane o mesi rispetto al momento della prima vaccinazione.

Il momento in cui la scarsità di vaccini non sarà più un problema è vicino ma non vicinissimo. Secondo i numeri di Von der Leyen, nel secondo trimestre aprile-giugno Pfizer fornirà 200 milioni di dosi, contro le 66 del primo trimestre. Ma da AstraZeneca ne arriveranno soltanto 70 sulle 180 promesse.

Quindi, par di capire, che se AstraZeneca avesse rispettato gli impegni ci sarebbero stati abbastanza vaccini per avere una campagna vaccinale decente, invece che i risultati attuali, che tutti considerano deludenti.

Troppe esportazioni

In questo quadro il numero che lascia più stupiti è quello delle esportazioni: tra il primo dicembre e il 25 marzo, da paesi dell’Unione europea sono stati esportate 77 milioni di dosi. L’Ue, infatti, è il principale donatore per paesi in via di sviluppo che non possono comprare il vaccino a prezzi di mercato ma lo ricevono attraverso il programma Covax.

Tutto legittimo e anche nobile, ma i numeri sono sorprendenti: l’Ue ha esportato un numero di vaccini comparabile a quello che ha somministrato all’interno dei propri confini. In tre mesi sono usciti 77 milioni di dosi a fronte delle 100 iniettate.

Non abbiamo le informazioni di dettaglio, ma sulla base di quello che ha comunicato la presidente Von der Leyen, è legittimo pensare che i 77 milioni siano quasi tutti AstraZeneca, visto che Moderna è una componente residuale (10 milioni di dosi nel primo trimestre, 35 nel secondo) e che Pfizer nella prima fase ha fornito anche più vaccini di quelli concordati, 66 milioni contro 65.

Quando a febbraio la Commissione ha introdotto un sistema di regole per dare autorizzazione preventiva alle esportazioni di vaccino, le reazioni sono state negative anche da parte delle voci solitamente europeiste.

Anthony Dworkin, del think tank Ecfr, ha scritto che la misura “è un passo pericoloso” perché, tra l’altro, crea confusione negli investitori e mina la credibilità dell’Ue come partner commerciale affidabile. Tutte preoccupazioni che oggi sembrano lontane, oscurate dalle reazioni quasi isteriche dei governi di fronte a una pandemia che non finisce mai, basti pensare al repentino ripensamento della cancelliera tedesca Angela Merkel sul lockdown di Pasqua.

Le nuove regole

FILE - In this Jan. 11, 2021, file photo Mary Williams, right, receives an injection of the AstraZeneca vaccine at the mass vaccination centre in Newcastle Upon Tyne, England. In recent days, countries including Denmark, Ireland and Thailand have temporarily suspended their use of AstraZeneca's coronavirus vaccine after reports that some people who got a dose developed blood clots, even though there's no evidence that the shot was responsible. The European Medicines Agency and the World Health Organization say the data available do not suggest the vaccine caused the clots. Britain and several other countries have stuck with the vaccine. (AP Photo/Scott Heppell, File)

Ieri la Commissione ha presentato nuove regole per le esportazioni, che rendono più stringenti i limiti decisi a febbraio. Prima di esportare dosi, oltre a valutare se e quanto si mettere a rischio la strategia comunitaria, bisogna anche considerare la reciprocità (se il paese di destinazione esporta vaccini o materiale per produrli, oppure se ha restrizioni) e proporzionalità (se le condizioni della pandemia sono migliori o peggiori nel paese di destinazione).

Finora i paesi verso i quali è stata autorizzata l’esportazione sono 33, i più rilevanti Regno Unito (10.9 milioni di dosi) e Canada (6,6 milioni).

Siamo a un passo dall’impazzimento generale, come ha scritto il sito Politico.eu, l’ultima fase della pandemia è “il pandemonio”. Perché i limiti all’esportazione di vaccini non risolvono l’altro problema urgente, cioè quale degli stati ha diritto alle poche dosi disponibili. Per questo gli Stati europei si sono rivolti anche all’America di Joe Biden: il presidente prevede di completare le vaccinazioni degli americani entro il 4 di luglio, ma forse già prima potrà rimpinguare i magazzini europei.

L’alternativa è far ricorso a Sputnik, il vaccino russo. Qui le cose si fanno complicate: Sputnik non è approvato dall’Ema, l’autorità sanitaria europea, alcuni studi scientifici indipendenti dicono che funziona, molti paesi già lo stanno usando. Ma è pensabile di immettere nel mercato europeo un vaccino non ancora del tutto analizzato, sulla base di dati incerti, quando per una settimana c’è stato uno psicodramma intorno ad AstraZeneca, dovuto soltanto a panico irrazionale e scarsa familiarità con la statistica?

I tempi di approvazione dell’Ema sono lenti, forse troppo lenti. Ma l’Unione europea è anche fondata sul principio – politico, non scientifico – di precauzione che prevede la legittimità di bloccare qualcosa nel dubbio che faccia male (cioè anche in assenza dell’evidenza scientifica che ne dimostri la pericolosità, come è nel caso degli Ogm).

La “rolling review” dell’Ema è in corso da tre settimane, nel frattempo si sono moltiplicate le frizioni con la Russia, in particolare tra Joe Biden e Vladimir Putin. E l’opzione Sputnik non sembra facile da seguire.

I tempi si allungano 

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Ogni passo verso il protezionismo vaccinale, poi, è un atto ostile verso le case farmaceutiche alle quali, contestualmente, l’Ue e i singoli governi stanno chiedendo ulteriore collaborazione per tentare la strada della produzione nazionale, cosa che comporta enormi sfide sia logistiche sia di proprietà intellettuale (e che non è risolutiva nel breve periodo).

Forse è tutto facile con il senno di poi, ma di sicuro la strategia vaccinale europea annunciata lo scorso giugno ha fallito. La domanda è perché. E la risposta probabilmente è che l’Ue ha scelto di negoziare in modo congiunto con Big Pharma nella convinzione di avere più potere contrattuale, con la premessa non dichiarata che il problema principale fosse il prezzo e non la quantità.

Il risultato è stato che AstraZeneca e le altre sembrano aver poco incentivo a concentrare la produzione in Europa e trovano più conveniente scontentare un unico cliente – per quanto grande – che pregiudicarsi altre opportunità. Oppure, semplicemente, non sono in grado. Una competizione tra stati regolata più dal mercato e meno dalla Commissione avrebbe avuto sicuramente spiacevoli conseguenze, come si è visto quando c’era la gara per ottenere le mascherine introvabili nella primavera 2020, ma forse avrebbe portato a risultati più efficienti. I paesi più grandi e ricchi o più piccoli e organizzati avrebbero avuto più dosi subito, rallentando la pandemia in casa propria, e le inefficienze e i ritardi negli altri sarebbero stati meno influenti.

I rimpianti sul passato non aiutano però a programmare la prossima fase, che non sarà risolta neppure dal protezionismo vaccinale. Forse non resta che rassegnarsi a tempi drasticamente più lunghi rispetto a quelli annunciati dalla Commissione e dai governi nazionali e adeguare piani vaccinali, misure di contenimento e iniziative di tracciamento dei contagi per evitare di farsi trovare ancora una volta fuori sincrono e quindi esasperare le conseguenze negative dei ritardi.

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