Vi siete sentiti sollevati quando le piattaforme digitali hanno silenziato il presidente degli Stati Uniti Donald Trump che incitava alla violenza? Avreste dovuto preoccuparvi, perché quell’esibizione di forza è stata soltanto l’inizio. In Australia Google e Facebook stanno ricattando un intero paese per costringere governo e parlamento a cambiare una legge che vuole restituire un po’ di potere e indipendenza ai media, da anni in crisi perché lo spostamento della pubblicità online ha arricchito soltanto gli intermediari, come Google e Facebook, e non i singoli siti web.

Antefatto: da mesi il governo australiano vuole regolare il rapporto tra media e piattaforme, per costringere i giganti del digitale a pagare per le news che offrono. E’ vero che i link portano traffico e dunque un po’ di pubblicità ai media, ma il grosso dei ricavi resta alle piattaforme che incoraggiano anche le testate a offrire anteprime direttamente all’interno del loro ecosistema in modo che il lettore legga le notizie senza cliccare sull’articolo, così da trattenere dati, traffico e profilazione dell’utente.

In molti paesi Google ha accettato di pagare qualcosa agli editori, pochi giorni fa ha firmato un accordo con l’associazione dei giornali francesi. Il motore di ricerca negozierà con ogni gruppo media una forma di remunerazione (indovinate chi avrà più potere contrattuale).

A livello globale, poi, Google investe un miliardo di dollari per sostenere i giornali, le redazioni, i singoli giornalisti e tutto quello che ha a che fare con i media. Un indennizzo che assomiglia molto a una forma di lobbying: potrai parlare male di chi ti finanzia?

L’Australia però crea un problema maggiore a Google: il governo sa che tutto il potere contrattuale è dalla parte dell’azienda americana, e dunque stabilisce che in caso di mancato accordo nella trattativa con il gruppo media si faccia ricorso a un arbitro terzo incaricato di stabilire il valore del contratto.

In questo schema non sono i media a chiedere clemenza a Google, come in Francia, ma diventano fornitori di un contenuto sensibile (l’informazione) che perfino il colosso del web deve pagare il giusto prezzo. Perché media indipendenti e sostenibili sono nell’interesse di tutta la collettività, non soltanto dei loro azionisti o dei loro lettori.

Inoltre, il governo australiano vuole mettere dei limiti alla possibilità di Google (e Facebook) di modificare in modo unilaterale e opaco gli algoritmi, cosa che favorisce o penalizza certi contenuti o testate. Oggi Google può arbitrariamente decidere di far rendere quasi inaccessibile un giornale, come ha fatto con The Australian (“per fare un esperimento”).

Mel Silva, la responsabile di Google in Australia, ha pubblicato un video tutto sorrisi che è la più esplicita minaccia di un’azienda privata a una democrazia: se il governo non cambia la nuova legge, Google potrebbe essere costretta a lasciare il mercato australiano.

Motivazione ufficiale, assolutamente non credibile: Google non sarebbe in grado di separare i siti di news dagli altri. «Se mettiamo un prezzo ai link per raggiungere una certa informazione, distruggiamo il modo in cui funziona il motore di ricerca», dice Mel Silva. Ma questo è esattamente il modello di business di Google: chiedere soldi agli inserzionisti per mostrare agli utenti un link invece che un altro. Quindi tutto il motore di ricerca si fonda sul prezzo dato alla posizione e alla visibilità di certi link.

La differenza è che in questo caso sarebbe Google a pagare, invece che a incassare.

Il futuro della democrazia, ancor più che del nostro malridotto settore dei media, è appeso al destino della battaglia australiana. Le piattaforme digitali hanno dimostrato di poter piegare un presidente americano in carica, riusciranno a fare lo stesso con un intero paese?

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