E due. E quindi, a questo punto, almeno una cosa si può dire: Matteo Renzi è il miglior oratore di cui l’Italia politica oggi disponga. Mi riferisco ai due discorsi in Senato, quello drammatico del ferragosto del 2019 in cui stroncò Salvini – «dicci dei tuoi conti in Russia!» - e incoronò Giuseppe Conte a capo della coalizione  giallo rossa; e quello di mercoledì scorso, in cui gli ha fatto capire che il suo governo resterà, ma sicuramente non per molto.

Tutti due i discorsi sono stati pronunciati parlando a braccio: chiari, tambureggianti, combattivi, da giovanotto dietro cui si intravedono truppe pronte all’assalto (che non ci sono, ma non importa). Sono discorsi non da sconfitto, non da nostalgico: eppure, secondo tutti i parametri Matteo Renzi dovrebbe essere uno sconfitto. Anzi, lo Sconfitto, leader di un minuscolo partito che ha preso il 4,5 nella sua Toscana.

Altro elemento suggestivo: nell’era della comunicazione elettronica, dei tweet e di Facebook, la scena della politica, e dell’oratoria pubblica - che è la sua essenza - torna ad essere l’antica sala con i vecchi banchi del Senato, un’istituzione che in Italia risale oltre i canonici duemila anni del Vaticano, e che Matteo Renzi, quando presentò la sua baldanzosa riforma, avrebbe voluto abolire, in quanto inutile e obsoleta.

Il paradosso Renzi

La persona e il luogo del discorso riassumono dunque una bella serie di paradossi, come il discorso di Antonio sul cadavere di Giulio Cesare. Per esempio: mercoledì in Senato Renzi ha accusato Giuseppe Conte di tendenze autoritarie se non dittatoriali, rivendicando il ruolo centrale del parlamento e delle “forze sociali”; è arrivato addirittura a chiedere di coinvolgere nelle decisioni di spesa i sindacati, aggiungendo, in un delizioso sbocco di ironia, “e mai avrei pensato di dirlo…».

Già, perché il Renzi presidente del Consiglio era stato, almeno nelle velleità, ben più autoritario di Conte, ben più accentratore, decretante, nemico dei lacci e laccioli posti da quello che rimaneva delle rappresentanze dei lavoratori, fin troppo interessato alla politica di relazioni, affascinato dalle mitologie mediatiche: Sergio Marchionne, per esempio, era un suo idolo. Mark Zuckerberg, anche.  E, dopo la caduta, inseguito da una muta di magistrati, fiero comunque di aver decuplicato, con conferenze internazionali, il proprio reddito personale, non aveva avuto ripensamenti. E quindi sentirgli dire, ora: «Questo non è un talk show, non è il Grande Fratello, è il parlamento» è sembrato un felice ritorno del figliol prodigo, e si sono spellati le mani persino dai banchi del Pd, il partito che lui stesso aveva ridotto in semipolvere.

Il decennio volatile

E’ davvero una storia inusuale, quella di Matteo Renzi, persino per questo ultimo decennio così volatile e imprevedibile della politica italiana. Fece al sua comparsa, da sindaco di Firenze, a 35 anni,  alla Leopolda nel 2010 (settemila presenti, 25.000 in streaming) e quattro anni dopo aveva maestosamente conquistato, più o meno come il Bonaparte nella campagna d’Italia, il più grosso partito italiano (un vecchio rottame, a molti effetti) ed era contemporaneamente diventato presidente del consiglio, appena dopo quel “stai sereno” a Enrico Letta, preceduto dalla pugnalata dei 101 a Romano Prodi.

Seguì una brillante presidenza del Consiglio, molto giovanile, baciata da una favorevole congiuntura internazionale, dal prezzo del petrolio basso, da buoni rapporti con Angela Merkel e con Barack Obama, dagli ottanta euro “in busta” che catapultarono Renzi al 40 per cento delle Europee e fecero dire a molti politologici: la storia è finita, come ebbe a dire anni prima Francis Fukuyama, è nato «il partito della nazione», non c’è più spazio per altro, l’Italia ha trovato la sua strada.

Come si sa, in soli 20 mesi, quel quaranta per cento si trasformò in diciotto, mentre le piazze gridavano vaffa vaffa, in attesa di qualcun altro che gridasse “la pacchia è finita”. Cosa era successo? Solita storia: Renzi aveva perso il contatto con il popolo, non aveva capito la necessità dell’accoglienza degli immigrati, si era lasciato soggiogare dalle spinte nazionaliste, non aveva particolari mentori saggi a dargli una mano, aveva sprecato il credito internazionale di cui godeva.

Il ritorno di un’illusione

Di tutte le illusioni politiche italiane, Matteo Renzi – e il suo ormai secondo ritorno – è il più singolare. Perché prima di lui hanno avuto chances, e le hanno sperperate: Gianfranco Fini con la prospettiva di una destra moderna, venne stroncato dai camerati; Angelino Alfano, nuovo centro destra (do you remember? E’ stato pur sempre ministro degli interni e degli Esteri) svanì e ancora adesso non si sa perché.

Niki Vendola, unico vero comunista post moderno, lasciò per abbandono; Silvio Berlusconi, troppo preso dai suoi affari, si dimenticò che occorreva qualcuno che gestisse anche il paese e si circondò di una classe politica particolarmente mediocre, metà della quale peraltro andò in galera.

Ci sono stati tentativi, sempre invocati, di dare maggiore rappresentanza politica al “centro” del paese, e alla sua “società civile”, ma sono tutti falliti, siano stati portati avanti, con maggiore o minore convinzione, da Luca Cordero di Montezemolo, Corrado Passera, Diego Della Valle, e se non l’avesse fermato la galera, Marcello Dell’Utri.

Per quanto riguarda il fu partito comunista, sub specie Pd, non si è mai ripreso dal turbine renziano: non ha espresso un leader altrettanto forte, subisce l’anagrafe e la mancanza di voglia di combattere. Scende per combattività pure Massimo D’Alema, che era stato, a suo tempo, piuttosto combattivo. E d’altra parte, l’immagine è quella di un partito abbastanza soddisfatto di aver salvato la sua storia e la sua retorica e, in fin dei conti, di essere pur sempre al governo: il partito delle persone per bene, Ztl.

Questo per dire che invece Matteo Renzi, che di anni ormai ne ha 45, ha ancora sangue nelle vene. E soprattutto, sente l’odore del sangue.

LaPresse

L’ultimo treno 

Che la situazione sia completamente mutata, tutti ormai l’hanno capito. Il virus ha costretto tutto il mondo a cambiare rotta. Negli Stati Uniti ha travolto Trump e la sua politica isolazionista, che avrebbe portato alla guerra, prima con l’Iran e poi con la Cina e avrebbe favorito lo sviluppo di regimi autoritari in Europa.

In Europa, finalmente, si è vista (un po’ di) vita, solidarietà, prosperità da difendere e da diffondere, comprese alcune buone idee per il futuro. In Italia, poi, è successo un miracolo pauroso, lo stesso della “Napoli Milionaria “di Eduardo De Filippo: siamo stati sommersi di miliardi, come non era mai successo nella nostra storia, nemmeno ai tempi di “Bienvenido Mr. Marshall”.  Conte – che non a caso fu accolto da scroscianti applausi in parlamento al suo ritorno, co’ i sordi, da Berlino – è stato il primo a ottenere più di quanto, probabilmente, meritassimo.

Alla conferenza di pace di Versailles, nel 1919, andò il nostro Vittorio Emanuele Orlando che per chiede soldi e territori, si mise platealmente a piangere come un vitello ricordando i nostri morti, il Piave, la spagnola, e tutto il resto. Ottenne parecchio, e anche la disistima di Clemenceau, che era sofferente di prostata: «Ah, se solo potessi pisciare come lui piange».

Ci diedero le famose terre del nord est, ma subito si disse che era “vittoria mutilata”, e che i nostri morti meritavano di meglio. E sull’onda di quei morti, nel 1922 Mussolini prese il potere. E quindi, attenzione a come si spenderanno i soldi, attenzione alla rabbia sociale, attenzione al dopo virus.Quando ci sarà il vaccino ma non per tutti, il lavoro ma non per tutti, i “risorti” ma non per tutti. In Germania , i primi nuclei nazisti del 1920 (bella ricerca di Siegmund Ginzberg) nacquero proprio sulla protesta contro i pochi soldi stanziati da Weimar per le vittime della Spagnola. Mesi fa, Mario Draghi ci tenne a dire, sul Financial Times, che era importante come si sarebbero spesi i soldi, altrimenti si richiavano scenari di «Europa anni Venti».

Questo è il quadro, al di là della politica politicante di questi giorni. Ne emergerà, di nuovo, Matteo Renzi? Io credo di no, però sarà stato utile, e penso che resterà sulla ribalta per un bel po’. Almeno finchè il Senato esiste e una certa passione per la lotta civile, la battaglia delle idee possa contuare ad esistere.

Per il resto, come tutti sanno, il governo non cadrà, ma sarà tenuto lì, ancora un po', si dice in attesa di Mario Draghi. Sul “Recovery” si scatenerà una grande battaglia, come era ai tempi delle leggi finanziarie del regime democristiano, quando le sedute alla Camera si chiamavano “assalto alla diligenza” e quella finale  (copyright Filippo Ceccarelli) “ultimo treno per Yuma”.

Treno su cui sale, perché sarebbe sciocco non farlo, anche Matteo Renzi.       

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