L’assoluzione di Virginia Raggi dal reato bagatellare di cui era accusata è, per molti, una pessima notizia. Lo è per i leader grillini, che nelle prossime elezioni a sindaco di Roma dovranno appoggiare obtorto collo una candidata considerata debole e logorata, indigesta a quasi tutta la dirigenza.

Lo è soprattutto per il Pd, incapace di indicare un nome decente per tentare di stringere un’alleanza più larga e riconquistare la Capitale, perduta anzitempo a causa dell’inchiesta Mafia Capitale e alle dimissioni forzose di Ignazio Marino.

Nicola Zingaretti e i democrat romani speravano davvero che i giudici gli togliessero le castagne dal fuoco: una censura per falso avrebbe infatti favorito un nuovo caminetto con Luigi Di Maio, in modo da trovare una figura di compromesso da schierare contro le destre.

L’assoluzione è indigesta pure per il governo, che puntava sull’uscita di scena di Virginia per compattare i due partiti di maggioranza in vista delle sfide nelle grandi città. Covid permettendo, il turno elettorale a Milano, Torino, Roma e Napoli è considerato decisivo per la tenuta dell’esecutivo, nel caso quest’ultimo riesca – ca va sans dire – a superare la crisi in cui si è avvitato da qualche settimana.

Il proscioglimento della sindaca deve invece essere festeggiato. Innanzitutto da chi considera fondamentali, in una democrazia, la divisione dei poteri e il diritto degli eletti di farsi giudicare dai cittadini che li avevano premiati nelle urne. La sentenza da un lato consentirà alla Raggi di partecipare alla gara per il secondo mandato non come un’anatra zoppa, ma come sindaca uscente con pieni poteri.

Dall’altro, costringerà la politica locale e nazionale a fare i conti la realtà, e a prendere decisioni trasparenti sulle alleanze e sulla selezione della classe dirigente. Sarà infatti impossibile per Pd e M5S usare adesso scorciatoie giudiziarie, o strumentalizzare codici etici manettari. Né le le due forze potranno nascondersi dietro i soliti supplenti (la magistratura in primis) a cui capi senza visione delegano sovente scelte che, in uno stato di diritto, sono appannaggio esclusivo dei rappresentanti del popolo.

Grazie all’assoluzione il giudizio sulla Raggi sarà dunque politico. Come deve essere. La sindaca verrà valutata dai suoi concittadini per quello fatto, e soprattutto non fatto durante i suoi giorni anni al Campidoglio. La Raggi è colpevole non perché, come ipotizzato dalla procura di Roma che ha perso il processo, ha raccontato una balla a un dirigente dell’anticorruzione. Ma per manifesta incompetenza nel comando della capitale d’Italia.

Se Wolfgang Goethe scriveva di non essere sicuro che le cifre governano il mondo, ma di «essere certo che le ci mostrano se è governato bene o male», la matematica sembra averla già condannata. In quattro anni e mezzo la Raggi ha cambiato una dozzina di assessori, più un vicesindaco, un vicecapo di gabinetto, una ventina di manager delle partecipate e un numero imprecisato di dirigenti apicali al comune. Un bailamme infruttuoso: i numeri sui trasporti pubblici, tra disservizi cronici e rete strutturalmente insufficiente, sono drammatici.

Quelli che monitorano l’igiene urbana indegni di una città europea. Idem i report che descrivono la cura del verde e la desertificazione della cultura, come evidenziato dall’ultimo rapporto indipendente dell’agenzia per la qualità dei servizi pubblici locali.

La Raggi, è certo, ha ereditato una macchina amministrativa disfunzionale. Erosa dal cancro di una corruzione diffusa e dall’eredità di un mandato, quello di Gianni Alemanno, che è stato tra i peggiori del dopoguerra. Detto questo, però, le promessa di rilancio proclamate dalla sindaca e dal M5S in campagna elettorale sono state sistematicamente disattese, e la città immobile sembra cristallizzata in un declino inarrestabile.

«Io sono onesta», ha ripetuto ancora ieri prima e dopo la sentenza. Vero. Ma la Raggi non può dimenticare che la questione morale ha coinvolto anche la sua giunta, e gli uomini da lei selezionati per amministrare Roma. Prima si è fidata ciecamente di Raffaele Marra, il suo braccio destro arrestato per corruzione, nonostante inchieste giornalistiche e i “chi va là” di compagni di partito.

Poi ha consegnato le chiavi del Campidoglio (e dell’Acea) a Luca Lanzalone, l’ex mr Wolf della giunta pentastellata arrestato per corruzione nel 2018 iper i presunti illeciti nella storia tragicomica dello stadio della Roma.

Un’opera inesistente che è manifesto e metafora perfetta della sua consiliatura. «Sarà un progetto rivoluzionario, innovativo ed eco-sostenibile. Insomma #unostadiofattobene» annunciava Virginia tre anni fa. Ad oggi non è stata posta nemmeno la prima pietra.

A Roma nessuno si sorprende più: perché di fatto bene, nell’amministrazione della Raggi, c’è davvero poco affinché il verdetto (politico) su di lei possa essere positivo.

 

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