Il primo istinto, durante la riunione di redazione, è stato di chiedere questo articolo a una collega giornalista, o a una delle nostre editorialiste. Non sono forse loro le più titolate a parlare di natalità e del bivio tra famiglia e carriera che tuttora le donne si trovano sempre davanti? Però forse il problema è proprio questo: continuare a considerare anche il problema della denatalità, che ieri ha mobilitato tutti per gli ennesimi “stati generali”, come un problema loro, delle donne. E se fossimo noi uomini l’ostacolo?

In Italia ci sono 7,3 nati per mille abitanti contro i 9,5 di fine anni Novanta e i 18 del boom economico. Con pochi figli, il paese invecchia: o si inverte la tendenza, o si fanno entrare giovani da fuori (ma i migranti li respingiamo) o il welfare diventa insostenibile, la quantità di gente che lavora si riduce, le tasse crescono per pagare l’assistenza, il Pil si contrae e diventiamo tutti più poveri, oltre che più vecchi.

Nel suo discorso di ieri Mario Draghi è stato molto più equilibrato di Antonio Tajani, (Forza Italia), che aveva detto «la famiglia senza figli non esiste». Il premier ha sottolineato però che per troppo tempo abbiamo commesso un errore: «Si è guardato alle donne che decidevano di avere figli come un fallimento, e all’individualismo come una vittoria. Oggi abbiamo capito che questa è una falsa distinzione». Le coppie vorrebbero in media due figli, ma ne hanno in media meno di 1,5.

Anche il Pnrr, il Piano nazionale di ripresa e resilienza, carica di responsabilità le donne: il problema della denatalità si riduce permettendo loro di avere sia una carriera che una famiglia. E dunque ci sono 4,6 miliardi per asili nido e scuole. Poi ci sono gli incentivi all’imprenditoria femminile, anche se è assai improbabile che una donna che mai ha lavorato cominci costruendo un’impresa.

Infine, c’è una "certificazione della parità di genere” di genere in azienda, misura cara al Pd: un nuovo livello di burocrazia che dovrebbe dividere virtuosi da sessisti ma che non produce da solo una soluzione. Perché, e arriviamo al punto, se è auspicabile un aumento del tasso di partecipazione delle donne al mercato del lavoro (oggi basso, 53,1 per cento), è ingiusto scaricare su di loro tutto il peso dell’aggiustamento: non c’è quasi traccia, a parte qualcosa sui congedi obbligatori, di politiche che spingano anche i padri a ripensare il proprio ruolo, a trovare nuovi equilibri (nel senso di meno carriera e più famiglia) e un diverso posto in un contesto famigliare che include bambini da crescere e genitori anziani da sostenere.

Nelle parole di Draghi, come in quelle del Pnrr, non ci sono riferimenti ai padri, ma soltanto alle madri, attuali o mancate. La premessa non dichiarata è sempre che lo standard – di carriera e di salario – maschile sia quello a cui la donna deve poter ambire, l’ipotesi di un riequilibrio che contempli qualche rinuncia dal lato degli uomini di solito manca del tutto. Ma senza affrontare anche questo lato dell’equazione, continueremo a ripetere gli stessi auspici per i prossimi anni con poco costrutto.

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