Oggi i vari ministeri hanno al presidente del Consiglio Giuseppe Conte le proposte sulle rispettive priorità da per il Recovery Plan, l’insieme di interventi da finanziare con la quota italiana dei 750 miliardi messi a disposizione dall’Unione europea, tra prestiti e trasferimenti.

Sono passati due mesi dagli “stati generali” organizzati da Conte a villa Pamphili a Roma, con imprenditori, politici, scrittori e chef che dovevano servire a raccogliere idee per la ripresa. Non hanno lasciato traccia. Ora tocca ai ministeri avanzare richieste, nell’attesa che il governo stabilisca una linea: che Paese vogliamo ricostruire sulle macerie del Covid?

Conte non sembra avere un’idea precisa, i leader dei partiti di maggioranza Nicola Zingaretti (Pd) e Vito Crimi (reggente sempre meno provvisorio dei Cinque Stelle) ancora meno. Eppure l’unica domanda che tutti gli italiani fanno alla politica in queste settimane è semplice: quei soldi arriveranno davvero? E saremo in grado di spenderli bene?

Tra marzo e luglio il governo ha dedicato energie e risorse soltanto a impedire il collasso completo dell’economia italiana. Il Parlamento ha appena autorizzato un ulteriore scostamento di bilancio, cioè un distacco dagli obiettivi precedenti, per altri 25 miliardi di euro soltanto nel 2020. In termini di fabbisogno, cioè di soldi da reperire sul mercato del debito, la cifra è di 32 miliardi.

Dopo anni passati a dibattere sulle riduzioni di qualche zero virgola pretese dalla Commissione europea, ci troviamo a gestire quasi senza dibattiti variazioni del debito pubblico gigantesche, del 20 per cento.

Il debito pubblico dell’Italia, secondo le previsioni del 2018, doveva arrivare quest’anno al 134,8 per cento del Pil. Dopo lo scostamento autorizzato nei giorni scorsi la nuova previsione è del 157,6 per cento. E tutto questo, è bene ribadirlo, soltanto per evitare lo sfaldamento del tessuto economico e sociale: non un euro è andato a investimenti anti-crisi (ma ben 3 miliardi per nazionalizzare, per l’ennesima volta, la solita Alitalia senza prospettive di rilancio). Cassa integrazione, liquidità per le imprese, bonus e cerotti fiscali per varie categorie. Tutte cose utili a mitigare l’impatto della crisi da Coronavirus, ma non a mettere le basi di una ripartenza.

Gli acquisti da parte della Banca centrale europea di titoli di debito italiano generano una domanda tale che i rendimenti richiesti dagli investitori restano bassi, anche a fronte di un rischio che è teoricamente aumentato con il crescere del debito. Il temuto spread, la differenza di rendimento tra titoli italiani e tedeschi a 10 anni, resta basso, a 160 punti, lontano dalle soglie di preoccupazione. Ma nessuno può pensare di continuare in eterno con questo triangolo tra blocco dei licenziamenti e cassa integrazione, nuovo debito per pagare le spese e Bce che compra i titoli.

La crescita può arrivare soltanto da investimenti aggiuntivi rispetto a quelli già messi a bilancio negli anni scorsi. La buona notizia è che sarà molto difficile spendere i soldi in arrivo dall’Ue per qualcosa di diverso che veri investimenti aggiuntivi rispetto a quelli già programmati.

La cattiva notizia è che anche se i soldi sono europei, i politici e la pubblica amministrazione che dovranno gestirli sono italiani.

A certe condizioni

Gli euroscettici hanno denunciato per mesi il rischio di “condizionalità” stringenti, cioè di vincoli all’uso dei fondi europei imposti per fantomatici disegni di sottomissione dell’Italia a potentati stranieri. Ma il vero vincolo non è quello esterno delle regole, è quello interno determinato dalla scarsa efficacia e dell’approssimazione che caratterizza l’esecuzione della nostra politica economica.

Di soldi ne arriveranno tanti, anche se meno dei 200 miliardi di cui si è parlato. Secondo l’Ufficio parlamentare di bilancio, l’autorità indipendente che vigila sui conti pubblici, del piano Next Generation Eu l’Italia otterrà un massimo complessivo di 87 miliardi tra 2021 e 2027.

Poiché ogni Paese dovrà anche versare risorse aggiuntive al bilancio europeo per finanziare le misure anti-crisi e rendere sostenibile l’emissione di debito comunitario, il beneficio netto per l’Italia sarà intorno ai 46 miliardi. Una stima provvisoria, visto che non sappiamo esattamente quanti soldi i singoli Stati dovranno dare al bilancio comunitario.

Questo conto però non deve raffreddare gli entusiasmi, ma trasmettere un senso di urgenza: il grande vantaggio è che l’Italia può avere i 46 miliardi subito, mentre i contributi al bilancio europeo sono spalmati sui prossimi sette anni. Come sanno tutti coloro che hanno comprato casa con un mutuo, avere i soldi disponibili quando serve è un servizio prezioso, anche se poi vanno rimborsati nel tempo.

Come ricorda l’Upb, i soldi europei del piano Next Generation Eu arrivano a certe condizioni, necessarie per assicurare l’efficacia:

L’erogazione dei fondi del NGEU è subordinata alla preparazione da parte degli Stati membri di Piani nazionali di ripresa e resilienza che definiscano un programma coerente di riforme e investimenti pubblici per gli anni successivi, con evidenziazione di target intermedi e finali delle riforme e degli investimenti. I progetti di investimento devono essere completati entro sette anni e le riforme entro quattro anni dall’adozione della decisione di concedere il sostegno allo Stato membro.

Questo vincolo temporale, fare investimenti da completare entro sette anni e riforme da attuare entro quattro, rende assurdo ogni residuo timore a richiedere il Mes, il fondo salva Stati che ha messo a disposizione dell’Italia una linea di credito da 36 miliardi a condizioni agevolate per investimenti in campo sanitario.

Gli scettici dicono che il Mes può tradursi in un commissariamento dell’Italia, una sottomissione a decisori esterni (la Germania e i Paesi “frugali”) e in un rischio di sostenibilità per il debito pubblico, visto che il Mes diventerebbe un creditore privilegiato (da rimborsare prima degli altri nell’improbabile eventualità di una bancarotta della Repubblica italiana).

Ma l’adesione dell’Italia a Next Generation Eu rende questi timori superati: il controllo su come spendere i soldi per gli investimenti e sulle riforme ci sarà già dal lato dei fondi in arrivo dal bilancio comunitario, rispondere anche al Mes (che richiede solo di usare i fondi per investimenti sanitari aggiuntivi) cambierebbe ben poco. La durata di sette anni del rapporto con l’Ue per i fondi connessi al Recovery Plan vincola anche più del Mes: l’Italia può richiedere i 36 miliardi del fondi salva stati soltanto nei prossimi 24 mesi e rimborsarli entro dieci anni.

E’ molto più difficile ottenere tutti i fondi di Next Generation Eu, visto che il rapporto è vincolante per sette anni e che se un Paese non rispetta le condizioni l’esborso può interrompersi (mentre le contribuzioni al bilancio europeo continuano).

Tradotto: si rischia meno a prendere i soldi del Mes e poi violare i patti che a fare lo stesso con l’Unione europea.

Il peso del debito

Vediamo la questione della sostenibilità del debito. Oggi il mercato richiede all’Italia un rendimento intorno all’1 per cento per i titoli di Stato decennali. Nei momenti peggiori della pandemia era 1,7, comunque sostenibile, segno che non ci sono dubbi strutturali sulla tenuta del Paese dal punto di vista della finanza pubblica (grazie alla copertura della Bce e a politiche di finanziamento del ministero del Tesoro che hanno saputo sfruttare bene i momenti di tranquillità sul mercato).

Il rendimento rimane basso nonostante le notizie negative sul Pil italiano, che nel 2020 potrebbe scendere fino al 13 per cento, per due ragioni: perché la Bce continua con i suoi acquisti straordinari ma anche per gli effetti del piano europeo. Il vincolo a spendere le risorse nell’arco di sette anni e solo per investimenti aggiuntivi rende il debito più sostenibile perché gli investitori sanno che l’Italia con quelle risorse potrà soltanto fare nuovi investimenti. Anche quelli più inutili, come linee alta velocità deserte o nuove autostrade che mai si ripagheranno con pedaggi, comunque avranno un impatto positivo sul Pil. E se cresce il Pil, il debito in proporzione pesa un po’ meno.

Richiedere il Mes amplificherebbe questo effetto: più soldi, da spendere in poco tempo e soltanto per investimenti (tipo nuovi ospedali) possono soltanto aumentare la sostenibilità del debito, non metterla a rischio.

Il problema resta il vincolo interno, cioè la nostra capacità di non fare troppi pasticci. Ogni investimento aggiuntivo con fondi Ue richiede comunque uno sforzo di politica economica “tradizionale”: immaginiamo di spendere 200 milioni per un nuovo ospedale, poi bisognerà mettere a bilancio qualche decina di milioni all’anno strutturali (ogni anno, per sempre) per pagare i medici che ci lavoreranno, gli infermieri, i farmaci che verranno prescritti…

Come ha osservato sempre l’Ufficio parlamentare di bilancio, l’erogazione dei fondi del piano Next Generation Eu richiede ai singoli governi di indicare anche “target intermedi e finali delle riforme e degli investimenti”. Tutte cose che non siamo mai riusciti a fare, visto che abbiamo approvato politiche che costano decine di miliardi - dagli 80 euro a quota 100 al reddito di cittadinanza - senza preoccuparci di valutare quali effetti ottengono e se sono coerenti con gli obiettivi (mai definiti, peraltro).

I fondi Next Generation Eu e quelli del Mes sono la nostra ultima occasione di impostare la politica economica in un modo più sensato.

Questa volta non possiamo davvero permetterci sprechi o ritardi, con un Pil in calo di almeno dieci punti o gli investimenti partono davvero e producono crescita, oppure il declino di questi vent’anni si trasformerà in una rapida catastrofe.

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