Tra i tanti partiti presenti nel governo Draghi si nota soprattutto la Lega, grazie alla capacità di Matteo Salvini di intestarsi risultati dei quali non ha alcun merito. Le riaperture dell’economia ci sarebbero state comunque, a prescindere dalla frequenza dei post leghisti sui social, così come l’uso delle mascherine si ridurrà per i vaccini e il caldo non perché lo chiede il leader leghista (che alle mascherine si ribellava anche a settembre 2020, qualche decina di migliaia di morti fa).

Pd e Cinque stelle continuano a essere persi nelle nebbie delle loro faide interne, incapaci di trarre profitto dall’esperienza di governo e privi della possibilità di metterla in discussione.

Il Partito democratico di Enrico Letta si dice soddisfatto delle primarie di domenica, non tanto perché hanno prodotto il candidato migliore per vincere le elezioni a Bologna e Roma, quanto perché l’esito è stato quello necessario a evitare l’esplosione del partito.

A Bologna ha vinto Matteo Lepore, sostenuto in modo compatto dai tanti che temevano un successo renziano di Isabella Conti (Italia viva). Viene così rinviato ancora una volta il tema della convivenza forzata nello stesso perimetro di due pezzi di partito, uno che continua a pensare che la linea centrista e orientata al business di Renzi fosse giusta, l’altro che guarda con nostalgia a un’idea di sinistra novecentesca sempre più difficile da declinare in un contesto economico e sociale molto cambiato.

A Roma c’è stato il prevedibile successo di Roberto Gualtieri, scelta di ripiego per lo stesso Pd che avrebbe preferito Nicola Zingaretti e l’assenza di primarie inutili ma che era imbarazzante cancellare. Gualtieri si è costruito una buona reputazione dal ministro dell’Economia del governo Conte II, ma per Roma al momento non ha espresso un programma chiaro e certe sue uscite pubbliche ricordano il Pier Luigi Bersani che nel 2013 pregustava la vittoria mentre prometteva di “smacchiare il giaguaro” (cioè Silvio Berlusconi, ancora al suo posto mentre Bersani fa il commentatore tv).

Nei Cinque stelle prosegue la tensione al vertice tra Beppe Grillo e Giuseppe Conte, con Luigi Di Maio che resta l’unico capace di comandare pur non avendo in questo momento titolo per farlo. Mentre Conte promette l’ossimoro di un populismo moderato e scrive pensierini su Facebook su pizza, lavoro e nazionale di calcio, nessuno percepisce più traccia della presenza dei Cinque stelle al potere.

Più che le inclinazioni personali di Mario Draghi, è la totale assenza delle due forze che dovrebbero incarnare il centrosinistra a lasciare questo strano governo in balìa della Lega e di un Matteo Salvini che, tra scandali giudiziari e competizione a destra da Giorgia Meloni, è tenuto in vita solo dalla debolezza degli avversari. Già si intravede il ragionamento autodistruttivo in base al quale quando un partito è logorato dall’esperienza di governo, soltanto all’opposizione può rigenerarsi. Una ricetta forse auspicata dai leader, ma non certo dagli elettori di Pd e M5s.

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