«Con questi dittatori, chiamiamoli per quello che sono, di cui però si ha bisogno, uno deve essere franco nell’esprimere la propria diversità di vedute e di visioni della società; e deve essere anche pronto a cooperare per assicurare gli interessi del proprio paese. Bisogna trovare il giusto equilibrio».

Così giovedì, in conferenza stampa, il capo del governo, Mario Draghi. A seguire la reazione irritata di Ankara nella replica del ministro degli Esteri, «il premier italiano ha rilasciato una dichiarazione populista e inaccettabile…Condanniamo con forza le parole riprovevoli e fuori dai limiti».

Come noto lo scambio è seguito allo sgarbo, non solo diplomatico, riservato a Ursula von der Leyen da parte del sultano Erdogan. L’immagine della presidente della Commissione europea accomodata su un divano con lo sguardo ai due presidenti uomini comodamente accasati sulle poltrone previste dal protocollo rimarrà simbolo di una pessima pagina e di una ancora peggiore mancanza di stile e consapevolezza politica del presidente del Consiglio europeo.

Fino a che punto?

Sino qui la cronaca di una settimana difficile, a noi però rimane la domanda: coi dittatori, laddove riconosciuti e denunciati in quanto tali, si deve comunque “cooperare” nel nome di interessi nazionali giudicati prioritari rispetto allo stesso giudizio politico espresso? O detto in altri termini, fin dove è legittimo spingere la Realpolitik di una democrazia chiamata a stabilire i limiti oltre i quali una simile cooperazione finisce col comprimere, e magari annullare, i principi fondanti la democrazia stessa? È vero, la Turchia fa parte della Nato dal 1952, fanno settant’anni tra qualche mese. Altrettanto vero che il suo attuale presidente, il poco ospitale Recep Tayyip Erdogan, ha vinto le elezioni più volte, l’ultima, non senza polemiche, col 52 per cento dei voti.

Turkey's President Recep Tayyip Erdogan gestures as he delivers a speechduring his ruling party's congress inside a packed sports hall in Ankara, Turkey, Wednesday, March 24, 2021. Erdogan has come in the firing line for holding the rally inside the closed venue amid a new surge in COVID-19 cases. Thousands of party supporters filled the stands of the 10,400-capacity sports hall in the capital, in disregard of the government's own social distancing rules to fight the coronavirus pandemic. Social media meanwhile, was rife with videos purporting to show busloads of ruling party supporters travelling to Ankara to attend the congress, many of them mask-less. The wearing of masks in public spaces is mandatory. (Turkish Presidency via AP, Pool)

Vero pure che nell’ambito della svolta a destra del regime turco si sono moltiplicate le forme di repressione del dissenso, con l’arresto di innumerevoli oppositori, la destituzione di sindaci, un controllo ferreo sulla libertà d’espressione, ricerca e insegnamento. Verissimo, infine, che l’Europa – la patria del diritto mite e della tolleranza nel segno dei valori illuministi – stacca da anni generosissimi assegni al governo turco in cambio della compiacenza loro nel trattenersi in casa qualche milione di profughi siriani volenterosi di approdare al vecchio continente, il nostro.

Col corollario che tale “ospitalità” non gode di alcuna garanzia sotto il profilo del trattamento, spesso disumano, degli apolidi in fuga. Ma quest’ultimo aspetto all’Europa interessa il giusto dal momento che, si sa, “occhio non vede, cuore non duole”, l’importante è non ritrovarsi quell’orda di disperati sull’uscio nostro con l’incubo di guastarci la scaletta serale del tiggì.

Questo se guardiamo a est. Se poi lo sguardo si rivolge a sud – per dire, verso il Cairo – allora la denuncia di un regime sanguinario trova prove più che bastevoli, nella ferita tuttora scoperta di Giulio Regeni sino alla parabola senza termine di Patrick Zaki, da quasi quindici mesi detenuto senza ragione in un carcere di quel paese e oramai prostrato nel fisico e non solo.

A giorni il parlamento italiano tributerà solenne riconoscimento al giovane studente trapiantato a Bologna finché la polizia di al Sisi non ne ha sequestrato la libertà e la vita. Lo farà con una procedura d’urgenza tesa a consentirgli di divenire cittadino italiano e sarà senza dubbio un momento prezioso e una testimonianza di dignità nella patria di Beccaria. Anche se sempre noi all’Egitto dove impera quel governo repressivo nel 2019 abbiamo venduto armi per poco meno di 900 milioni di euro. Cifra del tutto ragguardevole soprattutto se commisurata alla voce analoga di soli cinque anni prima.

Dunque, Turchia, Egitto, ma alla lista della cronaca recente come non sommare la Libia dove le massime cariche del nostro governo si sono recate da ultimo coll’intento, più che legittimo, di contribuire a stabilizzare uno stato tecnicamente “fallito”, e scegliendo per l’occasione di ringraziare la sua attuale guida per quell’opera di salvataggio in mare (sempre di migranti e fuggiaschi si parla) prontamente riportati dentro campi di detenzione giudicati dall’Onu come dalla Corte europea di giustizia luoghi di afflizione, violenza e tortura? Anche in quel caso, inutile ripeterlo, convergono la rivendicazione sacrosanta di un principio – nello specifico contrastare i trafficanti di corpi rinforzando il canale dei corridoi umanitari – e la tutela di corposi interessi dell’Eni nello sfruttare la sua storica presenza nell’area.

L’ambiguità dell’occidente

E allora? Dov’è che la condanna della dittatura turca o di quella egiziana può e deve combinarsi – «trovare il giusto equilibrio» per citare ancora il nostro presidente del Consiglio – con le esigenze primarie (ma pure secondarie e oltre) di un paese come l’Italia che ha tutto il diritto-dovere di preoccuparsi dei propri confini, dei propri interessi geo-strategici, delle proprie industrie e commesse?

Perché il punto sta lì. Nel comprendere in quale misura il capitolo dei diritti umani su scala globale possano e debbano prevalere su ogni altro calcolo o interesse. Che poi è solo un modo meno brusco di chiedere alla politica (governi, parlamenti, istituzioni comunitarie) quale prezzo si è disposti a pagare per chiudere un occhio, meglio ancora tutti e due, dinanzi al calpestare lo stato di diritto, le libertà fondamentali della persona a partire dall’inviolabilità del corpo e dalla tutela della dignità di ciascuno.

Il consuntivo? Riconoscere come le parole del nostro premier, al pari di quanti lo hanno preceduto nello stesso ufficio, siano il riflesso di una ambiguità che pesa sull’occidente come un macigno. Perché se da un lato dovrebbe la storia funzionare da monito verso i rischi di una sottovalutazione del ruolo delle dittature a qualunque latitudine (in fondo, inglesi e francesi ebbero a pentirsi del Patto di Monaco non troppo dopo il 1938), dall’altro ci dev’essere un criterio al quale principi non negoziabili si possano ancorare. Nel senso che non si può ridurre l’unica utopia universale rimasta – la difesa dei diritti umani a cominciare da quelli delle donne – a un relativismo etico di volta in volta subalterno e ostaggio di interessi meno nobili, ma più pesanti e pressanti nel rivendicare i propri interessi nazionalistici o corporativi.

Una gerarchia più coerente

Si dirà che siamo dinanzi a un paradosso irrisolvibile perché se volessimo applicare il criterio accennato a ogni paese tacciabile di violare quei diritti sprofonderemmo in un isolazionismo impotente e totalmente inabile anche solo a stimolare una evoluzione possibile di quei regimi in senso più inclusivo e liberale. In questa affermazione c’è del vero, inutile negarlo, eppure un grande paese come l’Italia, al pari di altri e forse un po’ più di altri, dovrebbe non limitarsi a cercare il «giusto equilibrio», ma capire come in un mondo privo di un chiaro ordine e in un tempo segnato da una democrazia più “fragile” si possa trovare la via per affermare il primato di alcune verità.

Un po’ come avvenne a suo tempo, almeno nel cuore dell’Europa, col rifiuto della pena di morte, premessa odierna per l’ingresso nell’Europa politica. Il tema, dunque, diviene come e dove piantare i paletti, una linea di demarcazione, oltre la quale affermare la necessità di cooperare con una dittatura lasci spazio a una logica diversa: in che modo articolare il campo più largo di paesi e organismi sovranazionali capaci di agire congiuntamente per costringere quei regimi al rispetto dei diritti fondamentali.

Perché, a dirla tutta, l’incidente della mancata terza poltrona per l’ospite europeo è certamente grave e da sanzionare, ma oltre l’episodio in sé rimane l’ipocrisia di un’Europa che sborsa denaro perché altri, fosse pure un dittatore, si faccia carico di evitare a noi un problema umanitario di troppo. Allora, forse, meriterà riavvolgere il nastro e darsi una gerarchia più coerente. Perché parliamo di diritti umani, e quelli non si governano a settimane alterne, pena trovarsi orfani non già di una poltrona, ma di un’anima.

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