Nella miriade di argomenti nel dibattito che sta accompagnando l’iter al Senato del ddl Zan ce ne sono tre che meritano una più attenta riflessione. Il primo di questi argomenti suona più o meno così: ma ha senso un’altra norma incriminatrice? Non bastano i reati “comuni” già esistenti?

Il sistema penale considera non tanto la condotta materiale, quanto l’offesa a un bene giuridico (inteso come bene-valore meritevole di tutela), e possono esserci diversi reati (e diverse cornici di pena), se diversi sono i beni giudici offesi, anche se la condotta materiale è la stessa.

Danneggiare un calice, imbrattandolo, non è la stessa cosa se si tratta di un calice nella cristalliera del mio soggiorno o invece di un calice destinato a una cerimonia religiosa – anche se il valore materiale dell’oggetto è il medesimo.

Nel primo caso il reato è quello di deturpamento o imbrattamento di cose altrui (art. 639 del Codice penale), punito con multa fino a 103 euro; nel secondo caso è offesa a una confessione religiosa mediante vilipendio o danneggiamento di cose (art. 404), punito con la reclusione fino ai due anni. Stessa condotta materiale, ma due reati diversi, con due pene diverse, perché il bene giuridico offeso è diverso: nel primo caso, il patrimonio; nel secondo, la sensibilità religiosa degli appartenenti al culto cui è destinato quel calice. Se questo è giusto, allora ha senso che gli atti a danno della comunità LGTB+ non siano sanzionati facendo ricorso ai reati “comuni” già esistenti. Una cosa è un’aggressione “comune”, un’altra è un’aggressione in odio all’orientamento sessuale (e al modo di viverlo) dell’aggredito. Certo, la condotta materiale è la medesima, ma il bene giuridico offeso è diverso, il secondo più grave del primo: integrità fisica nel primo caso; libertà di autodeterminazione quanto all’espressione del proprio orientamento sessuale nel secondo caso.

Tutto è vago, pure l’omicidio

Il secondo argomento è quello del timore della vaghezza della disposizione. Non è un rilievo da trascurare, tanto più se si parla di una disposizione penale. Nel migliore dei mondi possibili, le norme incriminatrici è bene che siano scevre da qualsiasi elemento di vaghezza, quantitativa o qualitativa. Peccato, però, che il migliore dei mondi possibili non esista.

Per stare anche qui a un facile esempio, prendiamo l’articolo 575 del Codice penale, Omicidio: «Chiunque cagiona la morte di un uomo è punito con la reclusione non inferiore ad anni ventuno». Qualcuno affermerebbe che questa disposizione è assolutamente priva di vaghezza? No; e infatti non lo è; tanto che su quel «cagiona» son diluviate piogge e piogge di sentenze, a precisarne – spesso con contenuto innovativo – il contenuto.

Prodotto umano, e quindi per sua natura sempre imperfetto, nessuna norma giuridica è invero priva di un certo margine di vaghezza. È per questo che esistono i giudici. La pretesa di una norma perfetta si risolve in una rinuncia (talvolta in mala fede) a normare.

Non si tratta di arrendersi alla naturale perfettibilità di una norma; si tratta piuttosto di aver fiducia nell’attività interpretativa e applicativa della magistratura. Ed è certo che verranno le applicazioni eccentriche, che verranno le interpretazioni ideologizzate (da un lato e dall’altro, beninteso: non si capisce perché tutti i magistrati debbano essere attivisti Lgbt e non ce ne possa essere qualcuno ultraconservatore): nessuna norma, mica solo il ddl Zan, rischia di essere applicata in maniera arbitraria. È per questo che il sistema è pieno di garanzie rispetto alle decisioni giurisdizionali: il diritto alla difesa, il doppio grado di giudizio, il ricorso sempre possibile in Cassazione, la motivazione obbligatoria delle decisioni, la possibilità di sollevare una questione di costituzionalità davanti alla Corte costituzionale.

Se e quando sarà approvata, la legge Zan sarà la legge Zan inserita in un complesso quadro normativo già esistente. Questo significa almeno due cose. Prima: l’obbligo per ogni giudice di interpretare la nuova legge in maniera conforme alla Costituzione (e se non lo fanno? beh, mica sarebbe la prima volta; se non lo fanno: doppio grado di giudizio, ricorso in Cassazione, questione di legittimità costituzionale...).

Seconda conseguenza: l’interazione della nuova legge con il diritto vivente, e dunque anche con la consolidata giurisprudenza di merito, di legittimità e di costituzionalità. Ed è qui il collegamento con l’ultimo argomento da trattare.

Opinioni penalmente rilevanti

C’è, infatti, una questione particolarmente delicata: quella del discrimine tra la libera espressione di un’opinione e l’espressione di un’opinione penalmente rilevante in quanto discriminatoria. È bene che qui ci sia il massimo livello di garanzia possibile, tuttavia, il rischio in cui una certa parte incorre su questo campo è quello di chi volesse capire che significa «chiunque cagiona la morte di un uomo…» senza andarsi a studiare la giurisprudenza delle corti di merito, della Cassazione e della Corte costituzionale su quel «cagiona».

Il tema del discrimine tra espressione legittima di un’opinione e reato non è nato con il ddl Zan. I giudici, la Cassazione e la Corte costituzionale, ne parlano da decenni, nella loro ormai consolidata giurisprudenza sui reati d’opinione (ad esempio: apologia di reato o istigazione a delinquere). Ed è chiaro che la legge Zan, quando e se ci sarà, si inserirà in questo contesto, e da questo contesto sarà orientata.

Basterebbe citare la sentenza della Corte costituzionale n. 75 del 1970, sull’apologia di reato: «Non è, dunque, la manifestazione di pensiero pura e semplice, ma quella che per le sue modalità integri comportamento concretamente idoneo a provocare la commissione di delitti».

L’opinione espressa dev’essere già principio di azione, ma questo – attenzione – va valutato caso per caso, alla luce appunto delle modalità, e quindi anche del contesto. Ecco perché non si può dare a nessuno la rassicurazione che una certa affermazione sia sempre legittima e una no: perché non esistono affermazioni neutre; vale la modalità, l’idoneità, come dice il giudice costituzionale – e questa può mutare anche se l’affermazione resta la medesima. La pretesa di una casistica che distingua caso per caso – «qui sì qui no» – è ingenua, se non in mala fede.

Si espande così di nuovo il rischio di applicazioni arbitrarie? Certo che si espande. Come per ogni norma. Fosse pure per la norma sull’omicidio. È il diritto, baby. Ma come ha detto il premier Mario Draghi in Senato, «il nostro ordinamento contiene tutte le garanzie per assicurare che le leggi rispettino sempre i princìpi costituzionali» – sempre, anche una volta che son state approvate. Temere che il ddl Zan si risolva in un arbitrario bavaglio alla libertà di espressione è, delle due l’una: o mancare di fiducia nei confronti della tenuta del nostro sistema costituzionale, o non essere fino in fondo convinti che una maggior tutela, in questo campo, sia necessaria. Nel primo caso, forse uno studio più approfondito può aiutare; nel secondo caso, purtroppo, non c’è niente da fare.

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