Sta succedendo quello che molti temevano: il contesto macroeconomico intorno all’Italia è peggiorato prima che il governo Draghi riuscisse a mettere le basi per una crescita duratura e sostenibile, in grado di garantire la sostenibilità di un debito che durante la pandemia è cresciuto fino al 153,4 per cento del debito pubblico.

L’inflazione è il problema più urgente, non soltanto per le sue conseguenze destabilizzanti sull’economia ma anche per le reazioni che porterà dal lato delle banche centrali, con un inevitabile aumento del costo del credito per stati, imprese e famiglie.

Nonostante le fanfare per la crescita record da +6,5 per cento nel 2021, l’Italia ancora non ha recuperato il livello di prodotto interno lordo pre-pandemia, è sotto di circa mezzo punto di Pil (andiamo peggio della Francia e del resto della zona euro, meglio della Germania).

Le previsioni d’inverno diffuse ieri dalla Commissione europea delineano un quadro nel quale il governo Draghi dovrà muoversi con grande cautela.

Prezzi peggio del previsto

L’inflazione sta diventando un problema serio: la previsione aggiornata per il 2022 è del 3,5 per cento, soltanto tre mesi fa la Commissione europea aveva previsto invece 2,2. In pratica a novembre Bruxelles aveva sottostimato del 60 per cento il rincaro dei prezzi che stiamo osservando, mentre aveva stimato per eccesso la crescita del Pil che sarà del 4 per cento nell’eurozona invece che del 4,3.

Se un tale errore di valutazione fosse presente anche in queste previsioni, fra tre mesi potremmo scoprire che l’inflazione è al 5,6 per cento. Numeri che sembravano impensabili un paio di anni fa, quando la Bce e la politica fiscale dei singoli paesi membri si battevano contro la deflazione (prezzi in calo e freno agli investimenti), ma che sembrano sempre più plausibili: gli Stati Uniti hanno appena comunicato l’inflazione di gennaio al 7,5 per cento (Consumer price index, rispetto a gennaio 2020).

La Federal Reserve guidata da Jay Powell si sta preparando ad anticipare la stretta monetaria con possibili aumenti dei tassi di interesse già a marzo, la Bce è in piena crisi di credibilità: la presidente sta distruggendo il lavoro fatto da Mario Draghi durante l’eurocrisi, manda messaggi confusi e gli investitori non sanno più bene cosa aspettarsi.

Italia in prima fila

Di certo non buone notizie per l’Italia: nei giorni scorsi la Bce ha diffuso alcuni dettagli sugli acquisti di titoli di stato durante la pandemia, quando per la prima volta ha violato il rapporto tra acquisti e contributo al capitale. L’Italia, che ha sottoscritto il 13,8 per cento del capitale della Bce, è stata invece la prima beneficiaria degli acquisti di titoli nell’ambito del programma Pepp, insieme alla Francia, e in parte alla Germania, mentre paesi “frugali” come l’Olanda sono stati penalizzati.

Quei dati indicano che, in caso di un ritorno alla relativa normalità della politica monetaria, l’Italia sarà la prima a pagare. Anche perché sta continuando a fare esattamente quello che i governi ostili le contestano: usare il debito pubblico per spese di dubbia utilità ma utili a costruire consenso politico, come il superbonus edilizio al 100 per cento che costa almeno 17 miliardi di euro.

Uno spreco certificato anche dalle prese di posizione del premier Mario Draghi, che non sono sfuggite ai mercati e che hanno classificato la misura come la peggiore spesa clientelare voluta dai partiti.

Non è un caso che il primo conflitto con le forze di maggioranza dopo la mancata elezione di Draghi al Quirinale sia proprio sul tentativo di arginare gli sprechi relativi al superbonus, con regole più stringenti sulle cessioni dei crediti fiscali.

Altro che problema provvisorio

L’inflazione è spesso invocata dai debitori perché consente di restituire a scadenza soldi che valgono meno – in termini reali, cioè di beni e servizi acquistabili – di quanto sono stati ottenuti in prestito. Ma lungi da essere un’opportunità per un paese ad alto indebitamento come l’Italia, questa inflazione rischia di destabilizzare una situazione già fragile.

 Gli ottimisti hanno finora sostenuto che era soltanto un problema di offerta, catene di fornitura globali impazzite con la ripresa simultanea di tutti i paesi dopo la fase acuta della pandemia. Il problema è che questa forma di inflazione “provvisoria” dura da oltre un anno e, ci informa la Commissione europea, sta addirittura peggiorando: la quota di manager europei che denuncia difficoltà a reperire materiali e macchinari è passata dal 49 per cento di ottobre al 51 per cento di gennaio.

Il picco dei prezzi energetici dovrebbe essere vicino, a giudicare dall’andamento dei future che prezzano le previsioni, ma non si vede alcun ritorno alla normalità imminente. Gli aumenti di prezzo, presto o tardi, diventeranno pressioni per l’aumento dei salari (siamo vicini, dice la Commissione) e la spirale inflazionistica diventerà un gorgo capace di inghiottire la ripresa. Intanto i conti stanno già sballando, il ministro delle Infrastrutture Enrico Giovannini ha detto che molti appalti del Pnrr andranno rivisti per tenere conto dell’energia più costosa. Significa, a parità di soldi disponibili, tempi più lunghi e meno investimenti.

Aver tenuto Draghi a palazzo Chigi forse è una condizione necessaria per gestire questa fase complicata, ma di certo non è sufficiente. Ci aspettano mesi complicati.

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