Portiamo l’Ucraina dentro l’Unione europea». Sono saltato sulla sedia quando ho visto il titolo dell’articolo di martedì di Stefano Feltri. Ma riga dopo riga il mio scetticismo si è dissolto, per ragioni che chiunque legga il suo testo comprenderà. Resta un punto però: la struttura dell’Unione.

Esiste una tensione tra l’estensione geografica e l’intensità politica dell’integrazione europea. Se ne è parlato in vista dell’adesione di una decina di nazioni emerse dalla dissoluzione dell’Unione sovietica, del Patto di Varsavia e della Jugoslavia. E senza dirlo esplicitamente si è scelta l’estensione: tra il 2004 e il 2007 12 nuovi membri – incluse Cipro e Malta – sono entrati nell’Unione, le cui istituzioni restavano pressoché immutate.

L’anno seguente è esplosa la crisi finanziaria globale. E sùbito dopo la crisi del debito europeo ha dimostrato la debolezza dell’architettura dell’eurozona, minata dall’asimmetria tra una politica monetaria centralizzata e politiche fiscali decentralizzate. L’euro è una moneta senza stato, in una parola, usata da stati senza una propria moneta, ed è principalmente per questo che le economie deboli dell’eurozona hanno tanto sofferto nel decennio passato.

L’intero dibattito ruotava attorno a una domanda, che la pandemia ha solo rimandato: come rettificare quell’asimmetria? Con un’unione fiscale, o con un migliore coordinamento delle politiche fiscali nazionali? E che grado di integrazione politica richiede ciascuna soluzione? Qualsiasi forma di unione fiscale, in particolare, pare inconcepibile senza un parallelo progresso nell’integrazione politica. Ma gli elettorati nazionali sono pronti?

Cerchi cocentrici

A queste domande la guerra ne ha aggiunte altre. Gli europei ormai sanno di avere un nemico comune, una potenza nucleare pronta all’aggressione per cambiare l’assetto politico e territoriale del continente. E insieme stanno imparando, scrive Wolfgang Streeck, che «se lasci che siano gli Stati Uniti a difenderti la geopolitica prevarrà su ogni altra politica, e la geopolitica la definisce Washington». Tutto ciò apre una nuova prospettiva, che all’integrazione politica e fiscale potrebbe congiungere una politica estera e di sicurezza genuinamente comune.

Secondo una diffusa interpretazione, del resto, lo stato moderno nacque proprio nella competizione per il territorio dell’Europa: serviva capacità fiscale per finanziare eserciti permanenti, e legittimità politica per tassare la popolazione. In forme diverse, la medesima logica potrebbe adesso orientare l’Unione nella direzione della sovranità.

Come gioca questa prospettiva – con le incertezze fondamentali che essa implica, incluso nei rapporti con la Nato – con l’idea di allargare l’Unione all’Ucraina, ai candidati della regione balcanica, e, quantomeno, anche alla Moldavia, chiusa tra Romania e Ucraina? I benefici potrebbero essere notevoli su entrambi i lati delle attuali frontiere dell’Unione; ma questa volta credo che sarebbe preferibile chiarire prima il futuro assetto dell’integrazione politica, fiscale e di sicurezza (e di riflesso i rapporti con l’alleanza atlantica).

O quantomeno sancire, e meglio organizzare, la coesistenza nell’Unione di due cerchi concentrici: uno nel quale l’integrazione è massima e uno nel quale è minore, con regole chiare per chi voglia passare dall’uno all’altro. Del resto, come nota Feltri, con l’accordo di integrazione economica del 2014 l’Ucraina non è distante dal possibile cerchio esterno. Ma bisogna crearlo per farla entrare, nell’interesse reciproco.

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