Trump si accoda a Netanyahu e attacca l’Iran, catapultando l’America, e non solo, in una guerra. Dopo i bombardamenti su Fordow, Natanz e Ispahan – che colpiscono le infrastrutture tecnologiche del nucleare iraniano ma, secondo Teheran, non intaccano gli stock di uranio arricchito, trasferiti altrove –, i Pasdaran reagiscono affermando che la guerra «inizia solo ora». Parole che preludono a un incontrollabile incendio nella regione: quando la lotta è percepita come «esistenziale», e lo è per entrambi i contendenti, salta ogni limite.

Ora gli iraniani continueranno a lanciare missili sulle non più inattaccabili città israeliane, ma non è escluso che mettano nel mirino le basi americane in Medioriente – in particolare in Iraq, dove, dopo la disastrosa guerra del 2003, Teheran è assai influente e conta su proxies armati. O si spingeranno sino alla temuta chiusura di Hormuz, destinata a generare ripercussioni economiche su scala mondiale.

ANSA

A loro volta i fidi Houthi possono rendere ancora più rischioso l’accesso al Mar Rosso attraverso Bab el Mandeb. Nel corso di una simile tempesta nemmeno i paesi del Golfo sarebbero al riparo. La guerra, poi, può assumere carattere asimmetrico, con la prevedibile ripresa di attacchi terroristici dentro e fuori la regione.

La chiusura diplomatica

Dopo i magnificati raid dei B-2, Trump, che ha ingannato tutti, alleati compresi, afferma di non volere «lo scontro totale» ed esorta l’Iran a negoziare. Parole nel vuoto, che occultano l’obiettivo di costringere Teheran a quella che aveva definito «resa incondizionata».

Dopo la fallimentare trattativa con gli Usa, l’E3 e la UE, Teheran pare non ritenere più possibile uscire dalla guerra per via diplomatica. Inoltre, anche esistesse uno spiraglio negoziale, ci penserebbe a chiuderlo Israele, che vede ormai il tracollo dello storico Nemico a portata di mano: coinvolgendo in una micidiale logica azione/reazione, l’«amico americano» ormai piegato alla politica del fatto compiuto di Bibi. Al di la del nucleare, l’obiettivo di Netanyahu, resta il regime change, destinato a consegnare a Israele il ruolo di potenza regionale egemone.

Un scelta gravida di conseguenze, quella del presidente che doveva «finire tutte le guerre» e precipita gli Usa in un’avventura bellica senza il via libera del Congresso – infliggendo l’ennesimo vulnus alla già calpestata democrazia americana –, sposando le tesi dell’ala filoisraeliana e teo-con dell’amministrazione a scapito del sovranismo isolazionista MAGA.

L’unità occidentale perduta

The Donald ignora anche l’offerta di Putin di farsi garante del nucleare civile di Teheran e le obiezioni cinesi. E ingiunge nuovamente a Teheran di scegliere tra «pace e tragedia», pena altri, più pesanti, attacchi. Mostrando di non conoscere né la realtà mediorientale, né tanto meno quella iraniana: difficile che la Repubblica Islamica rinunci ora alla “bomba”, vista come l’unica garanzia per la propria sopravvivenza. Una sua possibile uscita dal Trattato di Non Proliferazione impedirebbe anche le ispezioni dell’AEIA.

Stupisce, ancora una volta, la pochezza mostrata in simili frangenti dall’Europa: l’attacco Usa avviene poche ore dopo il tentativo diplomatico E3/Ue a Ginevra, nel quale Francia, Germania, Gran Bretagna e Ue hanno pedissequamente riproposto le posizioni degli Stati Uniti, che nel frattempo pianificavano con Israele l’attacco all’Iran. Ennesima dimostrazione che l’unità dell’Occidente è ridotta a feticcio e che non necessariamente gli interessi israelo-americani coincidono con quelli europei.

© Riproduzione riservata