«La situazione attuale rappresenta l'apice di un sistema di disuguaglianze e ingiustizie che va avanti da troppi anni: l’occupazione israeliana dei Territori Palestinesi e l’embargo contro Gaza incarnano l'intollerabile violenza strutturale che il popolo palestinese subisce quotidianamente». Parole che scatenano partigianerie e opposte fazioni. Perché pur essendo vero che «antisionismo non è sinonimo di antisemitismo, osserviamo come un antisemitismo non elaborato, che si riversa più o meno consciamente in alcune delle giuste e legittime critiche alle politiche di Israele, rende alcuni spazi di solidarietà difficili da attraversare. Si tratta di una impasse dalla quale vogliamo uscire, per combattere efficacemente ogni tipo di oppressione». Sono parole di un gruppo di giovani ebrei italiani. Sono il segno che c’è speranza, perché parole simili le ascoltiamo anche da giovani palestinesi che non sopportano più la corruzione e l’uso strumentale delle politiche di repressione e di occupazione dei Territori che le leadership di Hamas e dell’Olp di Abu Mazen usano per conservare il potere.

Una impasse da cui vorremmo che uscissero non solo i giovani palestinesi e israeliani, ma anche i leader del mondo che possono porre fine a un conflitto che dura da decenni, e che costringe milioni di civili a vivere nel terrore di un attentato o di un razzo piovuto dal cielo nonostante gli scudi, oppure reclusi: Gaza è la zona del mondo con la più alta densità di popolazione, da cui non si può entrare o uscire.

Una impasse che però vede un forte e un debole. Un paese che si dice democratico, il forte, non può in alcun modo non tenere conto delle convenzioni di Ginevra. Ma utilizza la rappresaglia e non considera la densità di civili quando colpisce obiettivi che reputa militari, o provoca vittime innocenti tra i civili, insomma utilizza gli attacchi che Ginevra vieta considerandoli indiscriminati.

Un paese che si dice democratico non può violare sistematicamente le risoluzioni delle Nazioni Unite. Un paese che si dice democratico non può utilizzare la guerra come mezzo per la risoluzione di conflitti politici e non può non tenere conto delle proporzioni, ma schiera carri armati contro le fionde, segrega un popolo intero, incarcera bambini, ha cacciato dalla loro terre oltre sei milioni di persone.
Non si può non tenere conto del fatto che le vittime palestinesi di questo conflitto sono quasi seimila, e quasi tutte civili, mentre quelle israeliane sono meno di 300, e quasi tutti militari impegnati in operazioni di guerra.

Per rompere quella impasse ben rappresentata dai giovani ebrei citati sopra in realtà è difficile - perché si può effettivamente essere confusi con un antisemitismo ancora troppo diffuso nel mondo - ma necessario sapere che in questo momento il paese che si erge a baluardo della democrazia e della civiltà in medio oriente - ed è riconosciuto come tale – tradisce gli ideali che proclama di difendere. Nonostante la maggior parte dei suoi abitanti e dei suoi correligionari siano civili, democratici e vogliano pace e convivenza.

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