Come con l’attacco all’Iraq, oltre vent’anni fa, si vedono ripetere motivazioni incredibili per giustificare l’attuale conflitto nei confronti dell’Iran, che chiamano in causa la libertà, la democrazia e il futuro dell’Occidente. Non era così allora e non lo è oggi: quello lanciato in questi giorni è un conflitto per riconfigurare a favore d’Israele l’ordine mediorientale
Vi è un inevitabile senso di déjà-vu nel vedere riprodotti, più di vent’anni dopo, alcuni degli schemi intellettuali utilizzati nel 2002-3 per giustificare l’intervento in Iraq. Gli stessi ragionamenti strategici, politici e finanche morali. Suffragati spesso dai medesimi, discutibili i paralleli storici, Giappone e Germania 1945 su tutti. Con una differenza non da poco, però.
La strada per Gerusalemme, affermavano allora molti sostenitori della guerra, passava per Baghdad, intendendo come la caduta del regime di Saddam Hussein sarebbe stata propedeutica a una profonda trasformazione politica e culturale del Medio Oriente che, a sua volta, avrebbe liberato Israele dalle minacce esistenziali alla sua sicurezza e permesso quindi di risolvere anche la questione israelo-palestinese. Oggi dei palestinesi – con la protratta strage a Gaza e la mano libera ai coloni in Cisgiordania – non parla invece più nessuno.
Sappiamo fin troppo bene come è andata 22 anni fa. La guerra in Iraq ha generato uno dei più grandi fiaschi nella storia della politica estera statunitense, provocato un conflitto civile che ha causato centinaia di migliaia di vittime, destabilizzato (a vantaggio proprio del nemico iraniano) il Medio Oriente e di fatto delegittimato un ordine internazionale di suo già fragile e contestato, contribuendo al suo ulteriore indebolimento.
Fu una guerra per la sicurezza – che con il suo programma di armi di distruzione di massa Saddam minacciava l’umanità intera, si sosteneva allora – ma anche per la democrazia, la libertà e in ultimo l’Occidente. In nome dei quali, si poteva soprassedere sulle modalità con cui ci si arrogava il diritto di entrare in guerra (jus ad bellum) e i criteri con cui la si conduceva (jus in bello). La natura della minaccia (assoluta e non contenibile), il soggetto che la promoveva (gli Usa e i loro alleati “occidentali”) e i valori in nome dei quali si combatteva (libertà e democrazia) rendevano il conflitto comunque “giusto”, anche nella sua patente illegalità.
Uno schema, questo, che sembra tornare in forme ancor più crude nella narrazione della guerra odierna contro l’Iran. Si combatte contro un nemico esistenziale con il quale nessun compromesso è possibile; si rappresenta il conflitto come un altro, ennesimo, capitolo di una perenne lotta dell’Occidente universalista contro la barbarie; si mobilitano le coscienze invocando la liberazione di iraniani e iraniane dall’oppressivo regime in cui vivono. E si fa strame di un diritto internazionale ormai completamente screditato, alla luce dell’applicazione di doppi standard che tanti attori – a partire da Israele e Stati Uniti – paiono avere pienamente internalizzato.
Ne conseguono però corto circuiti plurimi che oggi – in un mondo in cui il peso politico, economico e militare di questo Occidente si è ulteriormente ridotto – appaiono ancora più visibili. Si affonda qualsiasi possibilità di gestione multilaterale e istituzionalizzata delle crisi (quale quella che, nel 2015, portò all’accordo sulla gestione del nucleare iraniano che poi Trump abbandonò tre anni più tardi).
Non si occultano, ma anzi si ostentano criteri duali – sul rispetto del diritto e, anche, della vita – che sembrano portare le lancette della storia indietro non di vent’anni, ma di quasi un secolo e mezzo, all’occidentalismo imperialista di allora. S’investono della funzione di liberare l’Iran dalla dittatura, attori contraddistinti, sul piano interno, da visibili regressioni autoritarie.
Governi che in realtà sembrano avere ormai pienamente abbracciato una concezione neo-imperiale delle relazioni internazionali. In virtù della quale, questa guerra non serve ad esportare libertà e nemmeno a garantire la sicurezza d’Israele, che il pieno sostegno statunitense, le straordinarie capacità militari di Tel Aviv e il suo deterrente nucleare comunque assicurano, e per la quale sono ben più utili accordi come quello del 2015.
È una guerra per riconfigurare a favore d’Israele l’ordine mediorientale. Una guerra egemonica e di potenza. E come tale è necessario chiamarla e interpretarla.
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