Lo scoop del Financial Times può far pensare a un improvviso atto di generosità di Joe Biden nei confronti del resto dei paesi occidentali. Secondo un documento mandato dalla nuova amministrazione americana a oltre cento paesi, Washington vuole proporre un nuovo metodo di tassazione delle multinazionali che si abbina alla proposta del segretario al Tesoro Janet Yellen di una imposta minima a livello globale, arrivata nei giorni scorsi. La logica della proposta di Yellen è chiara: fermare la corsa verso il basso che spinge le multinazionali a spostare liquidità e utili dichiarati nei paesi che offrono la tassazione più bassa.

Gli Stati Uniti vorrebbero un’imposta del 21 per cento, anche perché il piano per le infrastrutture di Biden da 2mila miliardi trova una parte delle sue coperture in un aumento del gettito fiscale. Quindi un’aliquota minima a livello internazionale ridurrebbe gli incentivi a sottrarre gettito agli Stati Uniti, ma non basterebbe.

Ecco perché serve la seconda metà della proposta, quella rivelata dal Financial Times e che sembra un regalo agli altri paesi. Perché il documento che Washington ha mandato ai governi di quasi tutti i paesi dell’Ocse, l’organizzazione dei paesi industrializzati, permetterà a molti paesi di tassare multinazionali, in gran parte americane, nei paesi in cui operano, sulla base dei ricavi generati all’interno di quei confini.

Per intenderci: è come se l’Italia potesse tassare McDonald’s o Google o Amazon o Nike sui ricavi italiani.

Può sembrare un’ovvietà, ma le multinazionali globali hanno mille strumenti per evitare il fisco più invasivo. Per esempio trasformando ricavi in costi, i soldi entrano dai consumatori locali ma escono subito per pagare un’altra società del gruppo che offre beni materiali o immateriali (marchio, proprietà intellettuale di vario genere) o servizi a un prezzo tale che lascia ben poco di tassabile.

I condoni ripetuti

Negli Stati Uniti fino al 2016 le multinazionali non pagavano tasse sui loro profitti fino a quando non venivano “rimpatriati”. Il risultato era che le imprese tenevano all’estero ben 2.600 miliardi di dollari. Il sistema fiscale americano, quindi generava l’incentivo a reinvestire all’estero i profitti o a tenerli immobilizzati per evitare le tasse.

Per anni varie amministrazioni hanno cercato di far rimpatriare quei soldi attraverso l’equivalente di scudi fiscali, anche se non di evasione si trattava ma di legittima “ottimizzazione fiscale”, sottrarre miliardi al fisco era lecito. Nel 2004, per esempio, George W. Bush offrì una aliquota una tantum del 5,25 per cento e tornarono 362 miliardi. La sola Hewlett Packard, per esempio, riportò 14,5 miliardi su 15 che teneva all’estero.

Come tutti gli scudi fiscali, anche questo non ha mai funzionato, le multinazionali hanno continuato a scommettere su periodiche amnistie, che sono puntualmente arrivate. E così la quota di liquidità tenuta all’estero non è mai diminuita.

A questi comportamenti base se ne sono poi sommati altri più sofisticati, come il famoso “doppio sandwich irlandese-olandese”: troppo complesso anche soltanto da spiegare in sintesi, ma permette a molte aziende di azzerare di fatto l’imposizione fiscale, con uno schema che coinvolge Irlanda, Gran Bretagna e Bermuda che ha richiesto al Fondo monetario mesi di grattacapi per capire come funzionasse.   

Nel 2017 l’amministrazione Trump ha offerto l’ennesima, nelle ambizioni definitiva, sanatoria: un prelievo del 15,5 per cento su tutto il contante e gli asset liquidi accumulati all’estero tra il 1986 e il dicembre 2017 e dell’8 per cento sui redditi reinvestiti all’estero nello stesso periodo. Tranne alcune eccezioni, poi, gli utili maturati all’estero non sarebbero più stati tassati dal 2018.

L’intento di Trump non era certo punitivo verso le multinazionali, voleva spingerle a riportare soldi negli Stati Uniti e investirli lì in modo produttivo, in un protezionismo a base di bastone per i nemici (Cina) e carote per gli amici (l’aliquota federale sul reddito di impresa è scesa dal 35 al 21 per cento).

Dalla carota al bastone 

Ora Biden sostituisce l’approccio della carota con un bastone rafforzato: alza le tasse in patria e chiede ai paesi partner di tassare di più le multinazionali all’estero, per ridurre la differenza tra tassazione americana e straniera e abbassare così l’incentivo alle aziende a continuare a tenere all’estero centinaia di miliardi.

Se i paesi Ocse tasseranno su base territoriale le multinazionali americane per il reddito che generano all’interno dei confini, queste avranno meno interesse a sottrarre i profitti al fisco americano, tanto più che questo offre condizioni più vantaggiose rispetto a molti paesi europei. Vasto programma, ma è un chiaro segnale di inversione di tendenza.

Poi ci saranno sempre economisti che spiegheranno come le tasse sulle imprese sono distorsive, perché sarebbe molto meglio abolirle del tutto e tassare direttamente gli individui quando ricevono i dividendi, ma non è certo un momento favorevole per chi sostiene le ragioni dell’efficienza a scapito dell’importanza delle leve redistributive. In pochi mesi la presidenza Biden ha cambiato il clima.

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