Il progetto Biden per la riforma della tassazione delle imprese americane contiene, tra l’altro, la proposta di un accordo internazionale per stabilire un’aliquota minima comune del 21 per cento e l’apertura a un sistema di tassazione basato non solo sul paese dove il reddito viene prodotto, ma anche su quelli dove l’impresa genera i propri ricavi, che vi abbia o meno una stabile organizzazione. Una dichiarazione di disponibilità a negoziare un accordo multilaterale che rompe con le amministrazioni precedenti, subito accolta altrove con soddisfazione, in primis da Francia e Germania.

L’arbitraggio fiscale dei regimi fiscali nazionali praticato da un numero sempre crescente di imprese (non riguarda solo le multinazionali americane del settore tecnologico) costituisce un grave danno per le finanze pubbliche, ma anche una distorsione della concorrenza e dell’efficiente allocazione del capitale, in quanto favorisce le grandi multinazionali rispetto alle piccole imprese, e a quelle che operano solo nel proprio mercato domestico; e le imprese con attività intangibili, facilmente delocalizzabili, rispetto a quelle che impiegano tanto capitale fisico  (molto più facile trasferire un brevetto o un software che un impianto produttivo). 

Fare cassa

La proposta americana, più che ricercare l’armonizzazione e il coordinamento internazionale del regime fiscale delle imprese, essenziale in un’economia globalizzata, punta però esclusivamente ad aumentare il gettito interno, che costituisce appena il 6 per cento dell’entrate tributarie federali.

Poiché la riforma americana, per avere successo in un mondo interconnesso, richiede necessariamente la collaborazione da parte di altri paesi, Biden offre un accordo su un’aliquota minima globale, e sulla partecipazione alle imposte pagate dalle multinazionali Usa, in base ai ricavi generati nei vari paesi.

La riforma Biden è un passo avanti rispetto allo status quo, ma uno indietro rispetto alla proposta Ocse che, oltre a rappresentare una riorganizzazione organica e multilaterale della fiscalità d’impresa, avrebbe interessato un numero molto maggiore di aziende, americane e non.

Questione di aliquote

Biden vuole aumentare l’aliquota sui redditi d’impresa negli Usa, dal 21 al 28 per cento. Poiché a questo livello le società americane sarebbero penalizzate rispetto ai concorrenti degli altri paesi avanzati è realistico ipotizzare che alla fine si scenda al 25 per cento, come è già stato ventilato (in linea col 24 italiano). Ma questa è un’aliquota statutaria, che non corrisponde alla percentuale dell’utile effettivamente pagata al fisco: tipicamente almeno la metà delle società Usa paga di meno (abbiamo un problema analogo in Italia).

Una ragione è lo spostamento della residenza fiscale in paesi a tassazione privilegiata, anche attraverso l’acquisizione e successiva fusione in una società residente in quei paesi (la cosiddetta inversion).

Per contrastarla Biden aumenta dal 10,5 al 21 per cento l’aliquota minima per i redditi societari prodotti all’estero; ma perché non sia eludibile, né sfavorisca le imprese americane, bisogna che anche gli altri paesi si accordino per imporla.

Al tavolo del negoziato Biden porta un bastone, l’imposta minima del 21 per cento anche per le società straniere negli Usa (per evitare che riportino a casa una larga fetta degli utili); e una carota, la disponibilità a retrocedere una parte delle imposte delle multinazionali americane sulla base dei ricavi generati nei singoli paesi.

A differenza della proposta Ocse però, questo punto è ancora vago: non si capisce né quali ricavi copra (i francesi puntano solo a quelli digitali, che non li riguardano direttamente, mentre l’Ocse razionalmente includeva un ampio spettro di beni e servizi, incluso quelli di lusso); né quali imprese (poche grandi multinazionali americane o molte di più di qualsiasi altro paese come previsto dall’Ocse?).

Un’altra ragione sono i tanti “loopholes” del sistema tributario Usa (ma è lo stesso in Italia): la moltitudine di crediti di imposta, agevolazioni, incentivi, esenzioni che, abbattendo l’imponibile, riducono legalmente l’aliquota effettiva delle imprese, in certi casi quasi azzerandola.

Biden impone quindi un’aliquota effettiva minima sui redditi negli Usa del 15 per cento, ma limitatamente a società con almeno 2 miliardi di utili, si stima appena 180.

Molto meglio eliminare loopholes e distorsioni per tutti, invece di penalizzarne l’abuso da parte di pochi. Infine, vengono eliminate le agevolazioni a chi esporta beni prodotti negli Usa e chi ha impianti fissi all’estero: un aiuto alle grandi società tecnologiche con attività prevalentemente immateriali, che va nella direzione opposta alle altre misure del piano Biden.

Spunti italiani

Sembra che la riforma Biden riguardi solo la tassazione delle grandi multinazionali americane; ma ci sono molti elementi di quel piano che potrebbero essere utili anche per un’eventuale riforma del fisco italiano.

Per cominciare, la tassazione delle imprese in Italia ha generato in media il 6,4 per cento del gettito complessivo, come negli Usa.

L’Italia potrebbe dunque adottare l’aliquota minima al 21 per cento per i redditi prodotti all’estero delle nostre imprese: saranno tascabili, ma anche le tante nostre multinazionali perseguono, legalmente, l’ottimizzazione dei regimi fiscali.

Invece di un’aliquota effettiva minima per contrastare i loopholes, come Biden, si guadagnerebbe in efficienza se sfoltissimo la nostra fitta giungla di loopholes, in modo che tutte le imprese paghino effettivamente un’aliquota vicino a quella statutaria. Il principio dovrebbe essere l’uniformità tra l’utile contabile e quello rilevante ai fini del fisco.

Come usare il maggior gettito che queste misure genererebbero è una decisione politica. Ma poiché il nostro principale problema è la stagnazione di crescita e produttività, a differenza degli Usa, sarebbe forse opportuno usarlo per abbattere l’Irap, la tassa che maggiormente penalizza le nostre imprese.

Le ragioni sono note. L’Irap è un’imposta locale (finanzia le Regioni) e non rientra quindi nei trattati internazionali contro la doppia imposizione: un handicap per le imprese italiane e un deterrente a investire in Italia.

La base imponibile, calcolata come frazione dei ricavi (più precisamente è il valore aggiunto), tassa anche le aziende in perdita. E, per come è definita, penalizza le aziende con un elevato costo del personale.

Infine, è un ibrido perché gravando anche su autonomi, dipendenti di enti pubblici e non profit, società di persone e professionisti, costituisce una tassa sul lavoro: meglio spostare il finanziamento delle Regioni su imposte meno distorsive.

Sarebbe auspicabile che la legge delega per la riforma del fisco prevista dal Pnrr affrontasse anche questi problemi della tassazione delle imprese, rilevanti per promuovere la concorrenza e la crescita, come l’Europa ci richiede, e di cui da troppo tempo se ne parla in modo inconcludente.

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