La telecamera lo coglie col labbro che trema, come i bambini un istante prima di piangere, i lineamenti sono quelli dell’adolescenza, il viso è paffutello, nessun segno di barba, mostra l’età che ha, maggiorenne da poco. Neppure a farlo più grande basta l’abito serio, la cravatta annodata, una giacca fuori ordinanza per chi a tutti gli effetti è un figlio del nuovo millennio. Fatti due calcoli dev’essere nato nel 2003, vuol dire che l’11 settembre al più glielo hanno raccontato.

Si chiama Kyle Rittenhouse. Il 25 agosto dello scorso anno, in piena pandemia, ha fatto fuoco col suo fucile semiautomatico Smith & Wesson M&P-15. Ha ammazzato due uomini, Joseph Rosenbaum e Anthony Huber e ne ha ferito un terzo. Il tutto a Kenosha, nel Wisconsin. Non è la città dove Kyle è nato e vive di solito. Quella si chiama Antioch, si trova a qualche decina di chilometri di distanza, nell’Illinois. Ma erano i giorni delle proteste di piazza, spesso violente, contro le forze di polizia dopo l’omicidio di George Floyd, soffocato da un agente a Minneapolis. Kyle doveva aver seguito la vicenda da casa, via social, radio o tivù. E passati due giorni, imbracciato il fucile, era andato a “difendere” una città “assediata” da manifestanti indignati.

Kyle è stato processato secondo le regole della giustizia americana ed è stato assolto. Secondo la corte ha agito per legittima difesa. Hanno fatto testo le riprese di quel giorno. Lui col fucile, lui che spara, poi fugge inseguito, si gira, spara di nuovo e uccide. Al processo ha dichiarato di essersi sentito in pericolo, il terzo uomo, quello solo ferito, ha deposto riconoscendo di avere avuto con sé una pistola e di avere minacciato il giovane. Gli altri due, i morti, la loro versione non hanno potuto esprimerla.

Consolarsi è poco

L’assoluzione ha scatenato polemiche, molte, dure. Alcuni hanno ricordato la simpatia di Kyle verso i suprematisti, all’epoca del resto il presidente Trump non aveva esitato a schierarsi dalla sua parte. Il presidente attuale si è limitato a mostrare comprensione verso la rabbia che la sentenza avrebbe innescato, salvo riconoscere la legittimità della giuria e del criterio usato. Possiamo consolarci pensando che poteva accadere solo lì, dall’altra parte dell’oceano, in una nazione dove le armi si comprano al market e ne circolano a milioni. Forse però consolarci è un po’ poco.

Mezzo secolo fa, cinquant’anni precisi, Dustin Hoffman portava sullo schermo la parabola di David Summer, pacifico, quasi imbelle, ricercatore di matematica che solo una provocazione esasperata rivolta a lui e alla giovane moglie da un gruppo di potenziali assassini spinge a imbracciare un’arma, più di una mi pare, e quegli aguzzini elimina uno dopo l’altro. Cane di paglia non era l’anticipo della serie di giustizieri, diurni e notturni, conosciuti negli anni dopo.

Il film di Sam Peckinpah scavava nella psicologia dell’uomo mite che si trasforma, lo seguiva nel suo sforzo di resistenza allo sfogo violento, si interrogava su dove stesse il bene, e il giusto. Se nella difesa legittima a ogni costo assumendo quel bisogno come umanamente irriducibile, al massimo posticipabile, ma eliminabile mai.

Il punto è che comunque uno la pensi, David Summer non era Kyle. Al netto dell’età non se ne era andato armato come Rambo a portare giustizia dove, a suo dire, non ve n’era o non ce n’era a sufficienza. In effetti, fosse o meno fiction (e finzione era), quella di Dustin Hoffman al cinema non si poteva che definire difesa di sé e della sua famiglia (neanche tutta, perché il gatto glielo avevano già soppresso).

Ma Kyle? Chi ha messo quel fucile semiautomatico nelle mani di un adolescente perturbato o, forse, semplicemente immaturo e imbottito di teoremi sciagurati circa il diritto a uscire di casa e liberare il mondo da pessimi arnesi di una umanità avariata?

Ora che un neo maggiorenne responsabile della morte di due persone debba trovare nello stato una possibilità di riscatto è un dato da darsi per scontato. Che ciò possa transitare, come da sentenza americana, per una piena assoluzione avendo agito per legittima difesa fa intuire una crisi della ratio più interna alla legge che al dispositivo emesso. Ma il tema rimane e riguarda non il reo (o presunto tale). No, investe il o i mandanti, compresi cultura, linguaggi, ideologia che sulla vita e sulla mente di Kyle, e non solo sulla sua, qualche influenza l’hanno avuta.

E allora? Ha senso derubricare la parabola di un ragazzo americano triste e sfortunato a incidente della cronaca o non sarebbe tempo di denunciare i colpevoli veri di questa regressione che spinge a una militarizzazione della società secondo un pensiero della destra sempre più distante e ostile allo stato di diritto? Il tribunale americano ha assolto Kyle. Nessun tribunale esaminerà la pratica Trump come referente di quanti il sei gennaio hanno dato l’assalto al tempio della democrazia americana. Che legame c’è tra le due cose? Nessuno. O forse tutti.

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