L’inflazione accelera e supera le previsioni ufficiali di poco tempo fa. È ormai attorno all’8 per cento sia in Usa che nell’eurozona, e in salita. C’è sempre consenso sul fatto che la causa principale è l’aumento dei prezzi delle materie prime, soprattutto energetiche e alimentari. Sta invece perdendo peso l’idea che l’inflazione sia destinata a rientrare entro pochi mesi.

Se anche svanisse l’effetto della pandemia, che aveva interrotto certe produzioni causando l’aumento dei loro prezzi, rimarrà quello della guerra.

Inoltre, il fiammifero acceso dalla pandemia e dalla guerra trova carburante per continuare a bruciare nell’abbondante liquidità delle economie. Quali politiche economiche sono opportune in questa situazione?

La domanda vale soprattutto per la politica monetaria che ha il mandato di contenere l’inflazione. L’aumento anti-inflazionistico dei tassi Usa è calibrato su uno scenario di inflazione meno forte di quella che sta manifestandosi.

La Bce è più in ritardo: si è per ora limitata a fissare a fine giugno l’interruzione degli acquisti di titoli; la liquidità in euro ha ancora un costo negativo: -0,086 per cento per prestiti interbancari a un anno.

Il doppio shock

La guerra è uno “shock negativo all’offerta aggregata” che segue quello della pandemia, non del tutto svanito: ostacola produzioni e commerci e aumenta i costi degli input. La crescita rallenta e aumenta l’inflazione.

Si può cercar di rimediare usando le politiche monetaria e di bilancio che manovrano la domanda aggregata. Esse hanno allora una scelta imbarazzante: possono essere restrittive, per combattere l’inflazione o espansive per sostenere produzione, occupazione e crescita.

Nel primo caso il ritmo dell’attività economica viene ancor più sacrificato, nel secondo l’inflazione sarà ancora maggiore. Che fare?

L’inflazione degli anni Settanta del secolo scorso, scatenata da un enorme aumento dei prezzi del petrolio, fu affrontata in modi diversi a seconda di come i diversi Paesi valutavano il costo sociale dell’inflazione rispetto a quello della stagnazione.

L’Italia fu tra quelli che accettarono più inflazione, che giunse a superare il 20 per cento e fu poi lungo e costoso combattere. Faremmo bene ad accettare più inflazione in cambio di una stretta meno severa alla domanda?

Per la politica monetaria, nella situazione attuale, la risposta è negativa. Intanto perché con l’inflazione quadrupla del 2 per cento, l’obiettivo di medio periodo delle banche centrali, se queste non muovono sollecitamente in senso restrittivo perdono del tutto la credibilità.

In secondo luogo perché l’inflazione non è dovuta solo agli shock di offerta ma anche a politiche fiscali e monetarie molto espansive che hanno alimentato la domanda negli ultimi 15 anni.

Va anche considerato che i bilanci pubblici non potranno venir presto ristretti dato che la guerra comporta spese e si devono alimentare gli indispensabili investimenti per il clima e la transizione digitale decisi durante la pandemia. Alla politica monetaria tocca dunque moderare la domanda.

Verso la stagflazione?

Inoltre, la scelta fra inflazione e stagnazione è effimera, di breve periodo. Se si accetta l’inflazione, in cambio di una produzione più sostenuta, l’aumento dei prezzi finirà per travolgere il ritmo produttivo causando lunghe fasi di stag-flazione.

L’inflazione entrerà nelle aspettative e si diffonderà, tagliando il potere d’acquisto di redditi e risparmi, eccitando e poi frustrando rivendicazioni salariali e causando disordini nei rapporti fra i prezzi ed errori nelle scelte di consumo e investimento; fino a quando le politiche economiche non diverranno per forza restrittive, più a lungo di quanto occorrerebbe ora, con conseguenze anche politiche imprevedibili: la tolleranza dell’inflazione degli anni Settanta fu fra le cause del sopraggiungere di Reagan e Thatcher.

È perciò augurabile che le politiche monetarie reagiscano più sollecitamente all’accelerazione dell’inflazione. Negli Stati Uniti la domanda e la crescita sono soddisfacenti, la disoccupazione è bassa e i salari stanno crescendo: la Fed potrebbe accelerare l’aumento dei tassi già avviato.

Per la Bce il cambio di passo necessario è maggiore e, nel breve, più costoso perché la domanda e la crescita nell’eurozona sono meno vivaci che in Usa ed è più forte l’impatto della guerra. Ma serve un segno più netto che Francoforte guarda all’inflazione con realismo, evitando di ipotizzare improbabili rapidi rientri, e la si combatte in modo credibile. Ciò aiuterebbe anche l’euro che si è svalutato di quasi il 5 per cento negli ultimi due mesi. 

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