Vediamo di esaminare sine ira ac studio la vicenda processuale di Marine Le Pen, conclusa con la sua condanna a quattro anni di reclusione e soprattutto con il bando per cinque anni da incarichi pubblici che le potrebbe costare la presidenza della repubblica.

Nella valanga di dichiarazioni e proclami manca ogni riferimento alla “nuda realtà dei fatti” che parlano da soli.

Innanzitutto è bene dire che l’indagine è nata nel 2015, non ad opera della magistratura francese bensì dell’Olaf, ufficio europeo per la lotta antifrode che indaga sui casi di frode ai danni del bilancio dell’Ue e sui casi di corruzione all’interno delle istituzioni europee.

All’epoca l’organismo era guidato da uno stimato magistrato italiano, Giovanni Kessler, già parlamentare Ds, che condusse le indagini su alcuni dipendenti del Front National di Le Pen e sul segretario dell’allora presidente del parlamento europeo Martin Schulz. In entrambi i casi l’accusa era quella di un uso improprio dei fondi destinati dal parlamento di Bruxelles alla sovvenzione dell’attività dei parlamentari europei.

Sin dall’inizio le cronache raccontano delle proteste del Front National verso tale inchiesta accusando di parzialità l’Olaf per la decisione di formalizzare le accuse solo ai danni degli assistenti di Le Pen. L’ufficio antifrode ha rigettato tali critiche sottolineando quali fossero gli elementi a carico del gruppo di Le Pen.

In particolare, gli investigatori dell’Olaf hanno lavorato ascoltando fonti ufficiali del parlamento e controllando le impronte dei badge digitali dell’entrata e dell’uscita degli assistenti, per verificare se costoro vivessero e lavorassero effettivamente a Bruxelles.

A seguito delle indagini, l’Ufficio antifrode ha presentato le sue conclusioni preliminari su Le Pen ai pubblici ministeri francesi che hanno poi elevato l’accusa che ha portato alla condanna della leader di estrema destra.

Su tali accuse è interessante rilevare la linea difensiva di Le Pen e del suo avvocato Rodolphe Bosselut, che non hanno minimamente negato il “doppio lavoro” svolto dai funzionari del partito francese in servizio contemporaneamente a Parigi e Bruxelles. Essi hanno sostenuto che «non c’è mai stato alcun divieto per un assistente parlamentare europeo di impegnarsi in attività politiche o di dedicare parte del proprio tempo al proprio partito».

Con l’occasione – e come da copione – l’imputata si è detta vittima di persecuzione politica e contestando l’imparzialità del giudice.

Il punto cruciale dell’accusa è però che gli assistenti dediti al presunto doppio lavoro in molti casi e tramite prove documentali a Bruxelles e Strasburgo risultavano non aver mai messo piede pur avendo affermato il contrario. Questi i fatti qualificati come reato di appropriazione indebita dal tribunale e che tali verrebbero giudicati ovunque.

Nell’ambito del processo, la questione cruciale oltre la responsabilità della parlamentare concerneva l’immediata applicazione della misura interdittiva che avrebbe sospeso Le Pen dall’attività politica cui la difesa ha dedicato una parte importante della sua discussione. Qui le critiche hanno un loro valore perché la misura è stata esplicitamente adottata con finalità di prevenzione e dunque evitando il rischio che una potenziale pregiudicata per un reato grave possa assumere il ruolo istituzionale più delicato.

E tuttavia certe proteste sono stridenti ed ipocrite perché provengono da chi non ha alzato fiato di fronte alle “procedure accelerate” di espulsione dei migranti che richiedono asilo o davanti all’arresto dei leader dell’opposizione come in Turchia negando regolari processi e procedure in contraddittorio tra le parti. Ha fatto bene il tribunale francese a ricordare che la condizione di politico non può essere un privilegio per un trattamento di favore. Specie quando ad altri si negano i diritti elementari.

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