Quanto il male informato, manipolato, complessivamente pessimo dibattito sulle regole delle democrazie parlamentari influisce sulla opinione pubblica, ma anche sulle posizioni che prendono gli uomini e le donne in cariche politiche? Un’ondata di terrore sta colpendo i popoli (sic) scandinavi e la penisola iberica. I primi hanno votato per più di cent’anni e i secondi per quasi cinquant’anni con leggi elettorali proporzionali, ovvero con quello che nel titolo di un editoriale in prima pagina il Corriere della Sera (23 gennaio) definisce “Il sistema sbagliato”.

Grande preoccupazione e ansia attanagliano i capi di quei governi e, più in generale, di tutti i governi delle democrazie parlamentari. Nessuno di quei governi è “uscito dalle urne”. Senza esclusione alcuna, sempre, tutti i governi delle democrazie parlamentari si formano nei parlamenti che, quindi, potranno, cambiarne la composizione. Nessuno dei capi di governo è stato votato direttamente dagli elettori, nessuno di loro gode di una personale legittimazione elettorale. Tutti sono sostituibili senza il famoso “passaggio elettorale”, persino in Gran Bretagna, dove il sistema è maggioritario in collegi uninominali.

Incidentalmente, non basta un premio di maggioranza a rendere una legge elettorale maggioritaria. Anzi, definire sistema maggioritario una legge proporzionale che si accompagna con un premio in seggi è una manipolazione da denunciare tutte le volte. Sostenere che nei comuni e nelle regioni il sistema elettorale è maggioritario è tanto sbagliato quanto fuorviante. L’elezione del sindaco, che si accompagna con una legge proporzionale per l’elezione del consiglio comunale, configura un modello di governo di tipo presidenziale. Chi, a prescindere da qualsiasi considerazione di scala, sostiene la Grande riforma per eleggere il sindaco d’Italia vuole una forma di governo presidenziale.

Grande è la varietà delle coalizioni di governo esistite e esistenti nelle democrazie parlamentari. In estrema sintesi: coalizioni minimo vincenti (appena al di sopra della maggioranza assoluta), coalizioni sovradimensionate (comprendenti più partiti del necessario ad avere la maggioranza assoluta), coalizioni di minoranza (meno voti della maggioranza assoluta).

La condizione del governo Conte II era di una coalizione di minoranza soltanto in Senato, non alla Camera. Bollarlo come “governo di minoranza” era un modo per negarne la legittimità. L’art. 94 della Costituzione stabilisce laconicamente che «il governo deve avere la fiducia delle due Camere». In buona misura, i governi di minoranza vivono grazie alla non convergenza delle opposizioni in un voto di sfiducia. Operano attuando parti del loro programma e negoziandone altre con i partiti disposti a sostenerle.

Cambiare governi non alla loro scadenza naturale implica sempre costi economici e sociali. In questo parlamento non esiste possibilità di alternanza, ovvero di sostituzione dell’intero governo a opera di un’altra coalizione nessuna delle cui componenti abbia fatto parte di quel governo. L’alternanza completa è fenomeno raro. In Germania vi è stato un solo caso limpido di alternanza quando nel 1998 la coalizione socialdemocratici-verdi sconfisse il governo democristiani-liberali. In Italia, di tanto in tanto, i sedicenti maggioritari s’interrogano sulla necessità di un centro per fare l’alternanza. Grande è il mix di ignoranza istituzionale e incoerenza personale e politica.

Preso atto dei suoi limiti operativi e dell’indisponibilità a un allargamento della sua maggioranza, Conte si dimetterà oggi. Ripartano i meccanismi delle democrazie parlamentari. 

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