Nel maggio del 2018, poche settimane prima dell’insediamento del governo Conte I, il Financial Times, commentando l’avvento della stagione gialloverde, pubblicava un articolo dal titolo Roma apre le sue porte ai barbari moderni. L’immagine che accompagnava il testo era quella di Matteo Salvini e Luigi Di Maio, e il quotidiano sintetizzava così il giudizio dell’establishment finanziario su quello che stava accadendo in Italia. Pochi giorni fa a venir giudicati sono stati Matteo Renzi e la sua decisione di far dimettere la delegazione di Italia viva al governo. Una scelta che, si legge, «potrebbe mettere a rischio le sorti economiche dell’Italia».

Per questo il Financial Times dà all’ex premier il nomignolo di «demolition man». Lasciando intravedere un futuro di macerie dietro la sua ennesima scommessa politica. Di sicuro un pessimo biglietto da visita per chi spera di riconquistare centralità nella politica italiana e di poter ambire a prestigiosi incarichi internazionali (segretario della Nato?).

Se c’è una lezione che in tanti, non ultimo Giuseppe Conte, ci hanno insegnato è che per governare l’Italia, oggi più che mai, una cosa è necessaria al di là del consenso personale: essere considerati affidabili fuori dai patri confini. Non basta agitare la figurina dell’“amico” Joe Biden se poi la gran parte della stampa europea ti descrive come un irresponsabile. Persino la chiesa, attore non secondario nei processi di costruzione della credibilità internazionale, guarda perplessa alle mosse dell’ex premier e Sir, l’agenzia d’informazione dei vescovi italiani, ha parlato da subito di «un’irrazionale crisi di governo in un momento in cui servirebbe maggiore responsabilità». Nella sua furia rottamatrice Renzi sembra aver compiuto l’atto estremo: rottamare sé stesso. E questo, comunque vada a finire la sua personale sfida con il presidente del Consiglio, resterà come un dato incancellabile di questa crisi. Avvicinando pericolosamente quello che fino a qualche anno fa era considerato l’astro nascente della politica italiana all’oblio.

 

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