I problemi dell’Italia sono tutti colpa della “linea della palma”, come la chiamava Leonardo Sciascia, cioè della progressiva “meridionalizzazione” del paese? Un trentennio di Lega Nord al potere ha diffuso questa tesi contraddetta da molti contro-esempi (vedi le performance della sanità pubblica e privata lombarda durante la pandemia) che ha il pregio della semplicità e il difetto dell’inutilità: se il problema del paese è il Sud, che deve fare il Nord? La secessione?

Per qualche tempo vari giornali, Domani incluso, hanno pubblicato la pubblicità di un singolare libro che tenta di riprendere questo tema da una prospettiva quantomeno ardita, Il carattere meridionale, di Mario Frabbri (pubblicato da La Fabbrica delle illusioni).

I toni e le parole chiave usate nella sinossi in quarta di copertina suggeriscono una immediata diffidenza: quando si parla di «differenze innate tra i popoli del mondo» e, nello specifico, di «differenze di carattere» è questione di attimi lo scivolamento in argomentazioni tabù in ogni consesso civile, perché in altre epoche le «differenze innate» sono state fatte coincidere con la razza, e con il destino individuale e collettivo di interi pezzi di popolazioni accomunati sulla base di esigenze politiche e propagandistiche contingenti, non certo scientifiche e neppure sociologiche.

Eppure il curriculum dell’autore costringe quantomeno a valutare la linea argomentativa, visto che Mario Fabbri è un manager noto, che dichiara un MBA all’Insead, ha lavorato per Ferrero e fondato Directa Sim, società di trading on line di cui è stato anche amministratore delegato.

La radice dell’errore

Nel libro si trovano perfino riferimenti (un po’ datati, per la verità) alla ricerca economica, a regressioni, varianze e altri appigli che danno una parvenza se non scientifica almeno razionale a un ragionamento che arriva a conclusioni che fanno sobbalzare sulla sedia qualunque lettore ,tipo «negli ultimi 50.000 anni la specie umana è stata differenziata biologicamente dalla selezione naturale e dalla deriva genetica, per cui oggi è assai meno uniforme di quanto asseriscono con enfasi i moralisti egualitaristi». Le differenze sono tra meridionali e settentrionali, tra popoli con vocazioni, priorità e prospettive diverse, gli uni zavorra degli altri.

Ora, se perfino gli orologi rotti sono utili due volte al giorno a misurare l’ora, anche un libro che argomenta tesi così bislacche e a tratti aberranti può tornare buono.

Non perché si possa trovare qualcosa di condivisibile nella sua linea argomentativa, ma perché individuare l’errore è utile a prevenire questo e altri tipi di degenerazione nel modo di ragionare di chi, magari in buona fede, cerca di vedere nessi di causalità dove ci sono soltanto correlazioni.

Il primo errore di fondo è assumere che il “carattere” – casomai esista e sia definibile e misurabile – sia causa di comportamenti, scelte e conseguenze economiche, invece che il contrario.

I neonati meridionali sono intrinsecamente diversi su base genetica e per questo preferiscono un posto fisso nella burocrazia statale rispetto a un bebé bergamasco che nasce con i geni dell’imprenditorialità?

Neppure il geniale Checco Zalone di Quo Vado?, con la sua ossessione per l’impiego pubblico a bassa produttività e salario garantito, si è mai spinto a tanto. 

Le colpe degli avvocati

Ovviamente, è assai più plausibile un nesso di causalità inverso, di cui peraltro tutti abbiamo esperienza diretta o ravvicinata: chi nasce in un contesto con poche imprese e limitate opportunità, difficilmente penserà di poter fare l’imprenditore lì senza spostarsi, un posto nella pubblica amministrazione è sicuramente più allettante che qualche lavoro in nero malpagato.

Mentre chi invece ha la fortuna, alla roulette della vita, di venire al mondo in un contesto ricco e pieno di opportunità, ha maggiori incentivi a investire sulla formazione, perché vede che quel tipo di investimento è ben ricompensato in termini di opportunità di lavoro e salario futuro.

Per stare a un esempio a cui Mario Fabbri dedica molto spazio, i territori con più avvocati per ogni mille abitanti crescono più di quelli che ne hanno pochi. La Calabria ha molti più avvocati per 1000 abitanti del Veneto e del Piemonte. Cosa che spinge Fabbri a concludere che «il meridionale tipo non ama essere un produttore e lo fa solo se non ha altre possibilità».

Ma poiché la Lombardia non si incastra in questa teoria (ha troppi avvocati rispetto alla sua ricchezza), allora Fabbri conclude che questa anomalia «conferma che la vocazione produttiva è esaltata dal Dna longobardo» (qualunque cosa sia il Dna longobardo).

Si tratta soltanto di un colossale fraintendimento, dubito manipolazione, di come funziona la ricerca nelle scienze sociali: il fatto che ci siano più avvocati per 1000 abitanti nelle zone più povere può avere molte spiegazioni, per esempio che quella dell’avvocato è una professione territoriale (si è associati a un foro, a un tribunale) mentre altri lavori sono più mobili. Non sono gli avvocati che sono troppi, ma la popolazione che è poca, perché chi può se ne va, mentre l’avvocato resta.

Oppure può essere che esistano altre variabili che spiegano sia il numero di avvocati che la ricchezza, quindi non è il Pil a essere causato dagli avvocati, e neppure il numero di avvocati dal Pil ma entrambi dipendono da altre variabili.

Per esempio l’efficienza amministrativa e la garanzia dello stato di diritto: la Lombardia potrebbe avere “troppi” avvocati perché è litigiosa e poco efficiente come una regione meridionale anche se ricca, per esempio.

Il conesto

L’ipotesi balzana che la variabile mancante che tutto spiega sia il “dna” andrebbe quantomeno argomentata e provata, non può certo essere inferita da un semplice grafico come quello che Fabbri mostra.

Dalla ricerca economica sappiamo con notevole certezza che non è la differenza di carattere, o di Dna, a determinare le scelte, ma la differenza di contesto. Poi, certo, si può aprire un dibattito su cosa determini il contesto (la geografia? Lo stock di capitale presente? La temperatura? L’accesso al mare?).

 Ci sono varie branche dell’economia che studiano la genesi della crescita, nessuna arriva a concludere che ci sono differenze intrinseche negli esseri umani. Anche perché molta letteratura dimostra invece che, se messi nelle stesse condizioni, anche persone di estrazioni e biografie molto diverse fanno scelte simili.

Fabbri ha chiaramente interesse a stimolare un dibattito sulle cause della scarsa crescita italiana, lodevole intento. Meglio però spendere meno energia a divulgare tesi non scientifiche e screditanti e investire un po’ di tempo a capire meglio i contorni di una questione che merita sicuramente di essere indagata, ma non nel tentativo di dimostrare pregiudizi e stereotipi.

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