Lo stato, entrato “temporaneamente” nel capitale del Monte dei Paschi di Siena per ristrutturarla e rilanciarla, non riesce a uscirne perché non ci sono compratori, nonostante la ricca dote promessa. La popolare di Bari è di fatto nazionalizzata dopo l’intervento di Invitalia, attraverso il Mediocredito centrale.

Il Fondo interbancario di tutela dei depositi, diventato “temporaneamente” azionista di controllo di Carige è alla ricerca di un compratore, dopo la rinuncia di Cassa centrale banca. Unicredit e Banco Bpm stanno ancora studiando il proprio assetto definitivo, tra lo scetticismo del mercato visto che in Borsa trattano con uno sconto rispetto al patrimonio netto stimato per il 2022, rispettivamente, del 60 e 70 per cento.
È una chiara indicazione che la crisi bancaria iniziata 13 anni fa negli Stati Uniti coi mutui sub prime e poi deflagrata in Europa con la crisi del debito pubblico, non si è ancora risolta. 

Eppure, per smaltire le sofferenze, si è costituito il Fondo di risoluzione nazionale presso Banca d’Italia, la bad bank di stato (Amco), e sono state concesse garanzie pubbliche ai crediti deteriorati con le Gacs); alcune banche sono state liquidate (le Venete), mentre per altre si è usato la nuova normativa sulle risoluzioni (Marche, Etruria).

Evidentemente sono stati commessi errori, ma non si vedono cambiamenti di rotta, sottovalutando colpevolmente il nesso tra crescita economica ed efficienza del sistema finanziario, che nell’eurozona rimane incentrato sulle banche.  

Dov’è la redditività?

Il primo errore è l’approccio della Vigilanza unica europea, costituita proprio per superare la crisi e scongiurarne di nuove, che si è concentrata quasi esclusivamente su patrimonializzazione e liquidità come elementi di solidità del sistema, relegando la redditività a un ruolo residuale; ma è proprio la capacità di remunerare stabilmente il capitale (senza la droga di debito, derivati o pratiche contabili oscure) la migliore indicazione della salute di una banca, nonché il requisito indispensabile per raccogliere le risorse necessarie a finanziare ristrutturazioni, investimenti e acquisizioni.

La regolamentazione ha invece incentivato le banche a ridurre il rischio dell’attivo, e quindi anche la redditività, rendendo più difficile l’accesso al mercato dei capitali. I rischi sono l’essenza dell’attività bancaria: invece di ridurli, bisognava aumentare la capacità di assumerli in modo efficiente.

Avrebbe costituito anche una spinta all’innovazione, alla riorganizzazione del business bancario tradizionale e al ricambio manageriale, proprio in un momento di cambiamenti del panorama concorrenziale e tecnologico.

Lo stop ai dividendi

03 January 2021, Hessen, Frankfurt/Main: The skyscrapers of Frankfurt's banking skyline rise behind the European Central Bank (ECB) out of the gathering darkness. Meanwhile, politicians and academics continue to consider extending the lockdown beyond January 10. Photo by: Boris Roessler/picture-alliance/dpa/AP Images

Un altro esempio di questo approccio contraddittorio è stata la proibizione (e adesso la limitazione) a pagare dividendi imposta dalla Bce a seguito del Covid, che è equivalsa a una ricapitalizzazione obbligatoria precauzionale; allo stesso tempo però la Bce ha permesso alle banche di liberare capitale per incentivare il credito. 

La spinta a ridurre il rischio degli attivi e aumentare la liquidità, ha inoltre portato le banche italiane (e spagnole) ad aumentare l’esposizione ai titoli di stato (privi di rischio per la regolamentazione), rafforzando così il legame tra banche e debito pubblico che si voleva rescindere; e spinto quelle tedesche e francesi, il cui debito pubblico ha rendimento negativo, a parcheggiare la liquidità in eccesso presso la Bce, o a costruire complesse posizioni in derivati, ma prive di rischio per i modelli interni di risk management (altra stortura).
Redditività, innovazione nei modelli di business e ricambio manageriale devono diventare prioritari anche per la Regolamentazione, se si vuole veramente riformare durevolmente il sistema bancario. 

Anche i governi frenano la riorganizzazione delle banche e il recupero della redditività per paura dei costi sociali che le ristrutturazioni necessariamente comportano: in Italia non esiste un sistema di ammortizzatori sociali per i bancari, e si è ricorso in modo improprio a prepensionamenti e Quota 100.

I governi ergono poi barriere alle fusioni transnazionali, che aiuterebbero la ricerca della redditività, perché non vogliono che i depositi di un paese finiscano per finanziare imprese straniere (contraddicendo l’obiettivo del mercato unico dei capitali) e l’acquisto di debito di un altro stato sovrano, specie se molto indebitato, come l’Italia. Per questo basterebbe creare un vero safe asset in euro, liquido, in cui possono investire tutte le banche europee. Esisterebbe già: è il debito emesso dalla Commissione per finanziare il Piano per la ripresa e resilienza, se venisse emesso con continuità come Mario Draghi auspica da tempo e con forza.

Il ruolo dello Stato

Ma è dalla Direttiva sulle risoluzioni bancarie che vengono i maggiori problemi. Negli Stati Uniti lo stato è intervenuto con successo nel capitale delle banche solo a fronte della crisi sistemica del 2008, ma con l’obiettivo di uscire rapidamente e con un profitto: perché questo avvenga, lo Stato deve dare però priorità al recupero della redditività.

In tutte le altre situazioni la Fdic, l’Agenzia Federale indipendente preposta, impone alle banche in crisi una rapida liquidazione: la banca chiude la sera e riapre la mattina seguente con un nome e soci nuovi; le attività dubbie sono cedute a prezzo di liquidazione (o finanziate con un prestito del Tesoro per essere poi cedute rapidamente a prezzi di mercato); e ad eccezione dei piccoli depositi non c’è alcuna garanzia, neanche implicita.

La rapidità è la chiave per minimizzare i cosiddetti costi dell’insolvenza: la perdita di clienti, la reticenza dei debitori a pagare, e l’esodo dei migliori collaboratori tipici di un’azienda in crisi. Per le banche è anche peggio perché una volta persi, è difficilissimo recuperare i clienti per via della omogeneità dei servizi offerti. 

La Direttiva Europea fa esattamente il contrario. L’intervento dello Stato è precluso anche in casi di crisi sistemiche, ma ammesso con la ricapitalizzazione precauzionale dopo un processo lungo e burocratico che coinvolge Commissione e Bce.

A differenza della Fdic, i tempi lunghi della procedura massimizzano i costi dell’insolvenza, aggravando in questo modo la crisi e rendendo l’intervento statale sempre meno temporaneo. E’ il caso di Mps. 

Se la banca non viene ammessa al precauzionale, si passa alla risoluzione, anch’essa con tempi lunghi e procedure complicate per la cessione degli attivi (come è stato con Marche ed Etruria) che massimizzano anche in questo caso i costi del fallimento; a cui si aggiunge l’arbitrarietà della decisione dell’Autorità (il Single Resolution Board) sul taglio del valore delle passività, fonte di inevitabili azioni legali, come nel caso della risoluzione del Banco Popular. 

L’incapacità di porre rapidamente fine alla riorganizzazione del sistema bancario europeo è la prova che le norme e le istituzioni che lo regolano sono inadeguate. Ma manca la volontà politica di metter mano a errori commessi troppo di recente. La parola fine può attendere.

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