L’azione di pochi giorni fa di Ultima Generazione ha avuto il merito di dissodare questioni complesse e suscitare dibattito. La protesta, in questo caso specifico, verteva sulle scelte di politica energetica del governo: evitare nuove trivellazioni e non riaprire le centrali a carbone.

Dietro questi obiettivi però ci sono istanze molto più grandi: l’attivismo climatica spinge verso cambiamenti enormi. Secondo Gianfranco Pellegrino, in questo senso la disobbedienza civile è insufficiente perché, al netto della fretta che la scienza (e l’esperienza, oramai) ci raccomanda, i cambiamenti radicali in democrazia devono venire dal basso e se le reazioni all’attivismo sono perlopiù di condanna o indifferenza vuol dire che la società non è ancora pronta.
Ma la crisi climatica non è democratica. C’è chi la causa di più e chi la causa molto di meno e c’è chi la subisce di meno e chi la subisce molto di più.

Non è democratico nemmeno che una parte di popolazione, che non è pronta a disfarsi di abitudini e comodità, decida per il “clima” di tutti. Questo vale in scala globale e in scala locale.

Gli attivisti che si espongono sono giovani e dovranno subire le conseguenze delle scelte di oggi molto più a lungo dei loro genitori.

E anche se la generazione dei loro genitori è molto più numerosa e pesa di più sulle scelte del paese (anche solo con il voto), non è democratico che il loro futuro sia ulteriormente compromesso da chi non è ancora pronto a cambiare.

Modello Covid

Durante la pandemia si è deciso dall’alto che per proteggere la salute di una parte, più anziana e più fragile, di popolazione dovevano cambiare le abitudini di tutti.

All’improvviso, in una società estremamente individualista, è diventata centrale la comunità. A tratti forse si è esagerato, però ha funzionato. Ecco, forse dovremmo ragionare in questo modo quando si parla di crisi climatica.
Con il Covid c’era prima di tutto la paura per se stessi e poi il desiderio impellente di tornare il più velocemente possibile al mondo di “prima”. In questo caso il mondo di prima non potrà tornare (e se guardiamo bene non c’è già più) e i cambiamenti in questione dovranno essere non solo enormi ma permanenti.
La buona notizia è che qui si tratta di cambiamenti in meglio: la risposta alla crisi climatica è la stessa di Robin Hood, rubare ai ricchi per dare ai poveri.

Eliminare i jet privati con una mano e ripulire l’aria di Taranto con l’altra, chiudere gli allevamenti intensivi per respirare, mangiare e vivere meglio (noi e loro): sono semplificazioni evidenti ma forse danno l’idea. 

Giustizia climatica

Si parla di “giustizia climatica”. Una giustizia che intrinsecamente tiene conto di tutte le differenze e le faglie: di genere, classe, razza, generazione, specie.
Per andare in questa direzione, è importante che parte dell’attivismo si traduca in politica, che si formi un partito capace di farsi carico di questa visione del mondo. Ma servirà sempre l’attivismo perché avrà il dovere di essere più radicale di quanto può permettersi chi sta nelle istituzioni.

E avrà il dovere di volere molto di più di quanto è possibile sul momento. Con una fretta che nessuna rivoluzione ha mai avuto. 

Ora noi pensiamo che la fretta ci venga dalle parole della scienza e non da una nostra urgenza. Noi però, per la maggior parte, siamo quelli che hanno qualcosa da difendere.

L’urgenza ce l’hanno Mia Mottley, premier delle Barbados, Kausea Natano primo ministro dell’isola di Tuvalu, Davi Kopenawa portavoce del popolo Yanomami in Brasile, e sicuramente i milioni di pakistani che ancora fanno i conti con le inondazioni dei mesi scorsi. Ma anche chi ha vent’anni oggi e con i disastri fatti da genitori e nonni ci dovrà convivere. La loro è urgenza dal basso.

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