Nel programma originale del Movimento 5 Stelle il tema trasporti è stato declinato essenzialmente in termini di sostenibilità ambientale, ma all’inizio questo approccio si traduceva in una opposizione alla strategia berlusconiana delle Grandi Opere, considerate aggressive nei confronti dell’ambiente.

Il Movimento non era favorevole a priori al trasporto ferroviario: la grande opera assunta come simbolo negativo era una ferrovia, la Torino-Lione. Beppe Grillo denunciava alcuni aspetti della logistica (“le patate che si lavano in Austria e si ri-importano sono un assurdo”) ed esaltava la democrazia partecipata delle proteste locali.

Questo disinteresse per gli aspetti funzionali del settore a favore di quelli socio-ambientali era coerente con la simpatia iniziale del Movimento per gli slogan di “decrescita felice” del filosofo francese Serge Latouche.

All’inizio del primo governo Conte questi approcci si sono tradotti in un programma di razionalizzazione delle politiche infrastrutturali, con il ricorso alle analisi costi-benefici (Acb)a supporto alle decisioni, promosso dall’allora ministro Danilo Toninelli. Lo aveva promesso anche il predecessore, Graziano Delrio (Pd) ma poi aveva definito “strategiche”, cioè non da analizzare, opere per 133 miliardi, cioè praticamente tutte.

Già dopo a pochi mesi dal successo elettorale, i sondaggi registravano un calo di consenso.

Forse come reazione, i Cinque stelle hanno presto cambiato linea sulle infrastrutture. Alla fine del 2018 i risultati negativi della Acb sulla linea alta velocità Milano-Genova (“Terzo valico”), pur in precedenza osteggiata dal Movimento, vengono capovolti e il governo dichiara che, contro l’evidenza, di giudicarli positivi. Identica sorte tocca all’alta velocità Brescia-Padova. Rimane, in quella fase, solo l’opposizione alla linea Torino-Lione (detta Tav).

Il consenso tuttavia continua a scendere, arrivando a marzo 2019 al 21 per cento, senza che nessuno nei Cinque stelle si interroghi sul nesso tra la caduta di popolarità e il cambio di posizioni sulle Grandi Opere. Probabilmente il forte consenso del Movimento nel Mezzogiorno, più sensibile all’impatto economico delle grandi opere che alla tutela dell’ambiente, ha avuto un ruolo. Così come lo hanno avuto i media che evidenziano i benefici delle opere (che riguardano il territorio), e mai i costi (che riguardano tutti i contribuenti).

Senza più limiti 

La situazione precipita il 28 marzo 2019. Chi scrive, con un gruppo di altri quattro esperti, era stato incaricato delle analisi dei progetti, nell’intesa di un’operazione trasparente e non legata a preferenze politiche. Gli esiti non sarebbero stati vincolanti per le decisioni. Riguardo ai 12 miliardi da spendere per le ferrovie siciliane (destinate probabilmente a rimanere deserte), i Cinque stelle locali le avevano già classificate come “opere finalmente utili”, senza aspettare alcuna analisi. Il gruppo degli esperti indipendenti ha chiesto di ritirare questo consenso a priori, e Toninelli ha risposto che ”da oggi politicamente non posso dire di no più a nulla”.

I Cinque stelle avevano deciso di inseguire la Lega, che cresceva rapidamente in consensi, promettendo opere (cioè soldi pubblici) a tutti. Ma la perdita di consensi per il Movimento non si è arrestata.

Eppure i Cinque stelle non si sono mai interrogati sul fatto che questo ribaltamento di approccio potesse essere una delle fonti dei loro problemi Anzi.

Il premier Giuseppe Conte ha stabilito che si deve fare “l’alta velocità al Sud”, senza aver mai corredato di un numero – neppure sui costi – queste sue affermazioni. Eppure si tratta di costi elevatissimi, (per un’utenza prevedibile molto ridotta), e totalmente a carico delle casse pubbliche.

Poi il ministero dei trasporti si è accodato con il documento “Italia Veloce”, ma in modo estremamente vago e aperto a ogni soluzione (forse lì qualcuno ai numeri ha dato un occhio…).

Infine il decreto Semplificazioni, approvato in estate, ha tolto ogni dubbio: i Cinque stelle, con Matteo Renzi, tutta la destra, e ovviamente Confindustria, si sono battuti contro il Pd per usare al massimo il “modello Genova” che riduce o annulla le gare ad ogni livello, fino a sostituirle con affidamenti “a rotazione” (agli amici). Più grandi opere e meno concorrenza per i costruttori.

Il “partito del cemento” ha evidentemente acquisito un nuovo, convinto campione. Ora non c’è che da sperare che almeno l’Unione europea ci imponga severi vincoli sull’efficienza della spesa.

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