Per lunga consuetudine e frequentazione con ambienti filosofici specializzati e per generale sostegno ai movimenti di emancipazione dei diritti, mi sono sempre sentito vicino alla causa femminista. Mi permetto, dunque, di riprendere le considerazioni svolte su questo giornale da Giorgia Serughetti, anche in ossequio al sano principio per cui si può essere vicini ad una causa  senza esserne direttamente coinvolti, così come si può essere animalisti pur non essendo un animale.

Al di là della strategia in «tre mosse» così ben messa in luce da Serughetti, il mio consenso è sulla tesi di fondo del suo articolo: il tentativo della destra di impossessarsi della causa femminista.

Cosa avvenuta non solo in Italia, basta vedere quanto Marine Le Pen abbia utilizzato la difesa delle donne, ergendosi ad argine contro l’oscurantismo islamico (definizione sua). Strategia ripresa anche da Giorgia Meloni nella sua stagione anti establishment. Il fatto che Rocella, però, discenda direttamente dai percorsi di emancipazione degli anni Settanta e citi a suo supporto esponenti del pensiero femminista italiano rende l’operazione ancora più insidiosa.

Il pensiero della differenza

LaPresse

Come noto, il percorso femminista ha vissuto due grandi stagioni. La prima è identificabile con le suffragette che chiedevano per se i diritti concessi al mondo maschile. La seconda, invece, è quella delle battaglie degli anni Sessanta e Settanta dello scorso secolo, momento, in cui il femminismo ha sempre più percepito la precedente visione come assimilazionista.

Io stesso sentii Luisa Muraro, una delle esponenti più rappresentative di quella stagione, ripercorrere la propria esperienza raccontando il senso di disagio che iniziò a vivere quando percepì che le lotte che stava conducendo la stavano privando dell’aspetto più intimo della sua femminilità: l’essere madre. Nasce così quella presa di consapevolezza che porterà all’elaborazione del «pensiero della differenza», che riporta al vecchio paradosso, per cui l’uguaglianza si raggiunge affermando la propria specificità. Proprio sottolineando la differenza del femminile dal maschile si inserisce la svolta conservatrice della ministra Rocella, che, dunque, stabilisce una linea di continuità con le battaglie di emancipazione del secolo scorso. Va detto che non è la prima volta che il pensiero della differenza viene utilizzato a supporto di svolte conservatrici, quando non esplicitamente regressive.

Basti pensare alle battaglie sul ddl Zan, dove alcune esponenti storiche del femminismo italiano si dissero contrarie perché rimuoveva la differenza fra maschile e femminile da loro faticosamente conquistata. Io stesso fui coinvolto in un dibattito radiofonico con una femminista storica, in cui parlava di hybris per descrivere la pretesa di non riconoscere i limiti naturali attraverso la scelta del proprio genere indipendentemente dall’apparato biologico (io ho molti dubbi che esista persino quello). Beffardamente, gli stessi argomenti che decenni prima venivano utilizzati contro le donne, ree di confondere quei ruoli che madre natura aveva così ben ritagliato, anche solo perché volevano mettere i pantaloni.

L’inversione conservatrice

Sono contraddizioni che indicano la crisi di un paradigma, oggi chiamato a rinnovarsi se vuole affrontare le sfide che i nuovi tempi gli impongono. In un terreno teologico si parlerebbe di fedeltà allo spirito più che alla lettera.

Questa inversione conservatrice la vediamo anche in altri ambiti culturali. Nel mondo omosessuale che ha sposato la causa conservatrice sempre per respingere l’«invasione islamica». In quell’ebraismo legato alla destra, anche estrema, per fare massa comune contro il nemico arabo. Persino nel mondo animalista, disposto a creare alleanze parlamentari con la galassia identitaria che spesso considera la caccia tradizione locale, per respingere la macellazione rituale importata grazie ai flussi migratori.

Contorsioni che dovrebbero farci riflettere sull’antico monito talmudico per cui l’idolatria (leggasi dogmatismo ideologico) è il peccato da cui discendono tutti gli altri. Ed ancora, dovremmo prima o poi interrogarci sulla portata regressiva insita nelle nostre ideologie progressive.

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