Nei giorni scorsi in tutta Italia si sono svolte proteste contro il cosiddetto decreto anti rave. Era la prima mobilitazione in Italia per una norma annunciata ormai un mese fa e che dovrebbe diventare legge a giorni, dopo il primo passaggio al senato. Dentro questa norma c’è un’idea di diritto penale completamente alterata.

Il diritto penale opera sulle persone libere prima ancora che nei tribunali e nelle carceri. La sua logica punitiva incide sui comportamenti umani. Usato fuori dai suoi limiti costituzionali si avvicina alla ratio dell’incentivo imposto dalla paura della punizione o dal mero apartheid su classi di persone non gradite.

Le derive

Un diritto penale tarato su rischi o categorie di persone può trasformarsi in una morale pubblica, in una pedagogia, in un sistema educativo, in uno strumento di controllo autoritario, identitario, e sottratto al controllo democratico.

Per questo le Costituzioni e i loro interpreti pongono limiti alla discrezionalità del legislatore in ambito penalistico, che in Italia dal 1947 in poi hanno assunto le forme del rispetto da parte del potere legislativo del principio di ragionevolezza, del principio di offensività, del principio di legalità correlato alla determinatezza e tassatività di fatti imputabili a persone, del principio di proporzionalità della pena, e infine del principio di sussidiarietà che riguarda anche il se si possa o meno ricorrere a norme penali a livello di legislazione ordinaria.

Un diritto penale minimo deve sanzionare fatti e proteggere beni giuridici rilevanti e determinati, mentre non è legittimato a sanzionare status e categorie di individui. Una sovranità malintesa, attribuita a uno stato burocratico e cavilloso che si difende da nemici invocando il popolo o le esigenze di una società del rischio, è una sovranità sociologica e non giuridica, che ci riporta indietro al Tätertyp nazista e alla criminalizzazione degli improduttivi.

Il decreto anti rave

Foto AP

In Italia del diritto penale si fa spesso un uso simbolico; il decreto anti rave è un esempio paradigmatico di quest’uso, che nei decenni passati in Italia ha creato figure astratte di devianti a cui sono sottratti diritti fondamentali che spettano a tutti e non solo al cittadino italiano. Queste regressioni – il caso prototipale è il reato di “immigrazione clandestina” – sono conformi a un immaginario prodotto da un isolamento culturale, da trasmissioni televisive taroccate, dalla paura della morte fomentata dal bisogno di sicurezza, dalla decadenza economica e culturale di un paese minore che riduce gli spazi pubblici alla stregua di parti comuni di un condominio tutto abitato da persone impazzite.

Accanto alla criminalizzazione degli status, il modello di una discutibile società di diritto penale all’italiana è poi la massima estensione possibile di illeciti di pericolo. Ipotesi che dovrebbero essere eccezionali, in cui si sanziona la semplice messa in pericolo di beni già di loro molto generici come l’incolumità, la salute o la sicurezza pubblica, ipotesi che aprono lo spazio a ampi poteri di polizia già punitivi prima che un reato sia commesso, tendono a farsi regola oggi in Italia, e a essere estesi a tutto. Il decreto anti rave nella sua genericità è tutto questo: la logica dell’illecito di pericolo dovrebbe avere come oggetto la sicurezza sul lavoro o l’ambiente, e non certo una “norma sui rave”, che disvela un infantile tentativo di reprimere il dissenso forse con la scusa di tutelare il mercato delle discoteche.

Mala educazione

Se non si vuol vivere in una società di criminali da serie tv che sparano per strada a nemici sociali o che rinunciano alla tutela delle proprie libertà fondamentali nel nome della sicurezza, una logica che sa di eccezione non può diventare normalità. Ma la poca indignazione per una perversione penale come quella della norma anti rave è il frutto di mala educazione giuridica degli anni recenti, praticata soprattutto contro i migranti. La logica dell’illecito di pericolo sarebbe dovuta e dovrebbe essere la regola dei soccorsi in mare, degli sbarchi, del rispetto del diritto di asilo. Nel caso delle navi di migranti sono in gioco beni fondamentali che devono essere tutelati da un paese democratico già prima di una loro lesione effettiva. Non basta che non ci siano ancora morti in mare per negare il soccorso o darlo solo a alcuni. Il fare di tutto e di più con leggi e prassi di polizia dirette solo a rispedire gente a largo su una nave accresce il pericolo di ledere il diritto alla vita delle persone. Molte volte in Italia abbiamo assistito alla smentita in mare della logica da illecito di pericolo da parte dei suoi più strenui sostenitori in terra. Questa logica non vale se si tratta di praticare imbarchi selettivi.

Dove un problema di precauzione e di sicurezza si pone veramente allora si ripete sempre lo stesso refrain del coinvolgere gli altri stati europei, che peraltro in alcuni casi come quello tedesco o francese accolgono già un numero di migranti molto più alto di quelli “tollerati” dal nazionalismo nostrano che fa accordi con la Libia e produce la tendopoli di San Ferdinando in Calabria spacciandola per soccorso pubblico.

Bipolarismo giuridico

Oggi come ieri in Italia si tende a quello che potremmo definire bipolarismo giuridico. Un diritto garantista per “patrioti” e un diritto del nemico per “immigrati” e altre categorie astratte di capri espiatori esprime una classe politica bigotta, fisiocratica, ignorante.

Ma la mala educazione ha prodotto danni nella legislazione. Negli anni si è assistito a una patetica riforma della legittima difesa, e cioè al tentativo di sottrarre ai giudici il naturale controllo di proporzionalità fra difesa e offesa e legittimare l’eccesso colposo, o forse l’estensione a privati nel proprio domicilio della vecchia scriminante dell’uso legittimo di armi, come difesa sempre legittima della proprietà a costo della vita umana.

Anche qui il sistema democratico si è difeso con un intervento correttivo della Corte di Cassazione rispetto all’idea di reintrodurre nel sistema un qualcosa di simile alla pena di morte elargita da privati nelle loro villette o gioiellerie.

O ancora: le associazioni mentali e linguistiche fra immigrazione e crimine già prima del caso Rackete hanno fatto da base a estensioni indebite del reato di favoreggiamento, con la conseguenza di circoscrivere una regola ineliminabile e fissata nell’omissione di soccorso, a stretta eccezione rispetto alla mera delazione. Sul versante dell’uguaglianza di fronte alla legge le destre italiane hanno provato a introdurre nel codice Rocco un’aggravante comune di “clandestinità” falciata dalla Corte Costituzionale, che avrebbe significato aumenti di pena ad hoc solo per persone col permesso di soggiorno scaduto a parità di reato rispetto a italiani. Costituzioni parellele le chiamava Stefano Rodotà: un proliferare di leggi e leggine dirette a costruire un immaginario da esercito e un bisogno di protezione da figurine. Il “clandestino infibulatore e pedofilo“, il “tossico” equiparato allo “spacciatore” con condanne penali in origine abnormi, il “terrorista destinatario di ergastolo ostativo” (e vediamo oggi all’opera i danni sul caso Cospito), il “violento“ a cui mettere braccialetti elettronici purché non sia in divisa di guardia carceraria, l´“elemosinante che non produce e non è utile”, “lo straniero buono solo se assimilato a un noi che lavora“, il “raver“…

In tempi di mediatizzazione penale le mafie e l’evasione fiscale assurgono a problemi minori rispetto a un limite di contanti da depositare in banca. L´agenda politica di una sinistra non connivente dovrebbe porre un problema di discontinuità rispetto alla retorica delle comunità immaginate mutata in pubblica sicurezza o in ridicolo. Il delirio di quelle reali è prodotto anche da visioni eversive della legalità che diventano leggi dello stato.

Questo riguarda le scelte politiche ovviamente. Sul piano giuridico gli strumenti tecnici per fare breccia sugli aspetti più urgenti di questa deriva ci sono, a partire dal ricorso dei giudici a ordinanze di rimessione alla Corte Costituzionale tarate su una teoria dei beni giuridici garantista per tutti, e non espansiva di norme penali nel migliore del casi inutili e nel peggiore dei casi criminali.

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