Pro Publica, associazione americana di giornalismo investigativo, ha scoperto che Google è in affari con fabbriche di disinformazione, note ed acclarate: 1) le valorizza nei risultati di ricerca; 2) le rifornisce di pubblicità; 3) fa a mezzo dei ricavi. Così, ad esempio, con il sito serbo-bosniaco che sparge fuoco e fiamme sulla polveriera dei Balcani e che per questo s’è meritato perfino un posto nella lista dei sanzionati dal governo americano.

E tuttavia, sebbene agli americani sia proibito (e agli stranieri non convenga) fare affari con chi figura in  quella lista, Google ha accettato quel tipo come partner. Sebbene il giro d’affari sia poca roba e nonostante i crucci assicurati all’algoritmo della casa cui è comandato, a tutela dei brand pubblicizzati, che la pubblicità di prodotti per famiglia (detersivi, abiti da sposa, giochi per bambini) si mischi con contenuti d’odio di contesto.

Ma non stupisce, nonostante i prodigi dell’Intelligenza Artificiale, che qualcosa vada storto: gli abiti ST John (eleganza per signore) dalla funzionale leggiadria, sono piombati in un sito di credenti della Verità user generated secondo cui convivere col gatto protegge contro il Covid-19; la Croce Rossa, pilastro del soccorso sanitario, s’è accompagnata a video di nazisti risoluti ad affrontare il Covid come una comunissima influenza; un sito basco usava i soldi ottenuti insieme a Google per perseguire la disinformazione sistematica sulle statistiche olandesi dei morti in pandemia.

Ovviamente il sito serbo bosniaco e i suoi pari erano (dopo l’inchiesta i rapporti son finiti) e sono (altri simili ne esistono dovunque) minuzie all’interno dei due milioni di siti che prosperano con Google e le procurano (bilancio 2021) 31 miliardi (come dieci Mediaset messe l’una sopra l’altra). Cifra enorme, che tuttavia è a sua volta appena il 12 per cento rispetto ai 297 miliardi delle entrate della casa madre Alphabet.

Qual è allora la “ragione forte” che conduce Google, gigante da centinaia di miliardi, a imparentarsi con quei ceffi e a caricarsi dei conseguenti triboli avendone in cambio quattro soldi?

Google t’insegue

L’enigma si chiarisce, per quanto ne capiamo, guardando al cuore del business di Google che, al di là del dare link in risposte alle domande, consiste nell’inseguire il navigante, tallonarlo quando si tuffa dentro un sito, spremerne ogni istante dell’attenzione e del tempo spesi nella rete.

E’ in sostanza, la logica propria d’ogni fornitore che al cliente sogna di svuotare il portafoglio.

Salvo che con Google e simili il nostro portafoglio contiene minuti e clic immediatamente rivendibili alla pubblicità personalizzata e al conseguente rastrellamento di quattrini. Per questo Google c’insegue con la pubblicità di sito in sito compresi quelli della disinformazione più sfacciata.  

Quella di Google è una logica stringente e rigorosa, non più cinica di altre nel campo degli affari, ma specie nel mercato dei ricavi pubblicitari perché questo è a somma zero: l’uno guadagna ciò che un altro perde e se disprezzi una nicchia un altro se la prende.

A stemperare tanto monumento al capitalismo crudele, ma efficiente, ci ha pensato sempre Pro Pubblica accertando che Google impiega due pesi e due misure: con i siti in lingua inglese le partnership sconvenienti sono rare (certo non per carenza d’odiatori), mentre  s’addensano passando alle lingue ed aree non anglofone (a partire da quelle spagnole, francesi e tedesche) nelle quali sono più laschi, a quanto sembra, i parametri d’ingaggio.

Il che spiega l’ultimo enigma della storia: perché il governo americano ha lasciato correre i traffici di Google con l’odiatore serbo-bosniaco nonostante fosse colpito da sanzione?

Basta pensare a una Google che in casa si comporta come Garrone (lo specchio di virtù nel libro Cuore) tenendosi alla larga da suprematisti bianchi e compagnia, mentre all’estero, salvo ritirare la manina quando una ProPublica la becca, accaparra tutto quel che scova per sottrarlo ad eventuali concorrenti compatrioti o, ancor più, indiani ed europei. A gloria di se stessa e dell’Impero Americano.

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