Solo un attimo prima che la pandemia ci mettesse sotto tutela si era intravista una inedita vitalità della partecipazione politica in Italia. Matteo Salvini aveva continuato per tutta l’estate 2019 a scandire i suoi slogan trumpiani raccogliendo folle entusiaste dalla Sicilia alla riviera romagnola. Dopo essere uscito dal governo e aver perso la scommessa di ottenere elezioni anticipate, aveva dovuto addirittura aumentare il volume.

Tra metà novembre 2019 e metà gennaio 2020, l’indignazione dell’altra Italia, quella non leghista, aveva preso la forma di una contro-azione collettiva negli eventi messi in scena dalle sardine. Il governo e la leadership del Pd parevano appesi al risultato delle regionali in Emilia-Romagna. Da un mese all’atro, siamo passati da una società polarizzata a una società preoccupata e acquiescente.

Il Salvini che per “dare battaglia” deve andare sotto palazzo Chigi con una ventina di figuranti a rivendicare «il Natale con i nonni lontani» fa tenerezza. Oggi anche una parte dell’opinione pubblica di centrodestra chiede addirittura restrizioni maggiori contro il Covid e le periodiche rilevazioni SWG, per esempio, segnalano con poche variazioni un largo consenso verso le limitazioni imposte dal governo, comprese quelle riguardanti le festività di fine anno.

Mentre le intenzioni di voto per i principali partiti sono sostanzialmente stabili. Nel frattempo, i Cinque Stelle hanno abbandonato il Vaffa (la V identitaria di quel Movimento diventato presto partito), sono diventati parte dell’establishment, si sono riallineati verso il centrosinistra tanto che a questo punto non stupirebbe nessuno se avessero già informalmente chiesto l’ingresso in S&D (il gruppo parlamentare europeo dei Democratici e Socialisti), a maggior ragione dopo che i loro 4 eurodeputati sovranisti “amici di Dibba” sono fuoriusciti per entrati nella pancia dei Verdi, uno dei partiti più pro-Europa del parlamento europeo.

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Molti soldi, poca crisi

Ma allora da dove dovrebbero venire le spinte decisive per una crisi? Dalla votazione sulla riforma del Mes? Le revisioni al Trattato che istituisce il Meccanismo europeo di stabilità su cui dovrà esprimersi il Parlamento non c’entrano nulla con la richiesta o meno dei famosi 37 miliardi del Mes-Sanità che, secondo quanto trapela sulle intenzioni dei Dem più alti in grado nel governo, non verrà avanzata dall’Italia.

Il governo avrà comunque una montagna di soldi da amministrare. Tanti da poter mettere d’accordo o comunque tenere buoni, nel breve termine, una buona parte degli interessi organizzati.

I fattori di instabilità possono venire solo dall’interno delle forze politiche di governo. Dai mal di pancia della fronda anti-Di Maio dentro all’agitatissimo corpaccione dei Cinque stelle, dovuti alla diffidenza crescente tra chi è vicino alle stanze ministeriali e chi ne è rimasto fuori, tra chi pensa di potere entrare o essere rappresentato nel direttorio e chi teme di essere messo ulteriormente ai margini.

Per non parlare del malanimo di Alessandro Di Battista, a cui però per rientrare in gioco non basterebbe un rimpasto. Avrebbe bisogno di far saltare il banco.

Una cosa solo vagamente simile capita nel Pd. Il governo è stato composto in tutta fretta e con poca attenzione alla corrispondenza tra peso politico nel partito e ruoli.

Sarebbe quindi del tutto ragionevole se Graziano Delrio, Andrea Orlando, Nicola Zingaretti (per fare solo due o tre nomi che danno l’idea) considerassero innaturale stare ai margini di un gioco così rilevante che è oggi nelle mani di altri molto meno influenti di loro nel partito.

L’effetto del Quirinale

Ma potranno queste aspettative essere portate fino al punto di mettere a repentaglio l’attuale equilibrio politico? Chi lo evoca sembra fare lo stesso errore costato caro a Salvini. Sottovaluta l’influenza che in Italia esercitano l’integrazione europea e - soprattutto - il Quirinale, sommati al naturale istinto di autoconservazione di chi occupa cariche parlamentari e di governo potenzialmente a rischio, per di più dopo la riforma sullo snellimento delle due camere.

Mentre nell’estate del 2019 fu la “finestra stretta” aperta da Sergio Mattarella per le consultazioni a cambiare i giochi, oggi è la minaccia dello scioglimento in caso di crisi a stabilizzare il quadro. Più che una minaccia è un indizio. E questo basta. L’avvicinarsi del semestre bianco e del rinnovo di quella stessa carica, con le connesse ambizioni di alcuni tra i più avveduti manovratori dei giochi parlamentari fanno il resto.

Quindi, se dovessi scommettere, direi che fino al 2022 Giuseppe Conte rimarrà dov’è. Sul 2023, quando la pandemia sarà finita, saranno rimaste le ferite del sistema economico e la necessità di ripagare i debiti, la società italiana tornerà a mobilitarsi, in diverse forme, sembrano più plausibili altri pronostici. 

D’altro canto, i partiti mainstream della prima repubblica (dal centro alla sinistra) elessero Oscar Luigi Scalfaro nel 1992 e furono annichiliti dal risultato delle elezioni di due anni dopo. Il centrosinistra portò Carlo Azeglio Ciampi al Quirinale nel 1999 prima di perdere nel 2001, ha sostenuto Giorgio Napolitano nel 2006 e perso nel 2008, ha promosso Mattarella nel 2015 e si è schiantato elettoralmente nel 2018. Può darsi che sia solo una cabala. O che sia una regolarità.

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