Pubblichiamo un estratto dal nuovo libro di Gianfranco Pasquino, Libertà inutile. Profilo ideologico dell’Italia repubblicana (UTET 2021).


Per diversi anni mi sono riproposto un compito estremamente ambizioso: scrivere il seguito del saggio di Norberto Bobbio, Profilo ideologico del Novecento italiano (Einaudi, 1986). Il testo scritto da Bobbio arriva fino al Sessantotto, ma, deliberatamente, non se ne occupa. Interrogarsi, riflettere, analizzare i cinquant’anni trascorsi da allora è un’impresa certamente difficile, ma, al tempo stesso, culturalmente e politicamente necessaria.

Senza nessuna falsa modestia fin dall’inizio sapevo, e ogniqualvolta rileggevo qualche pagina specifica del Profilo, me ne rendevo conto, che mi sarebbe stato impossibile offrire una visione complessiva dell’Italia repubblicana dalla seconda metà del secolo scorso ad oggi altrettanto ricca e articolata quanto quella elaborata da Bobbio.

Non mi faccio nessuna illusione sulle mie capacità di conseguire risultati minimamente comparabili con quelli del prezioso libro di Bobbio. Al tempo stesso, però, il compito ha continuato non soltanto ad attirarmi come grande sfida intellettuale, ma anche a sembrarmi sempre più necessario in un paese nel quale il dibattito pubblico si è impoverito, ingaglioffito e imbarbarito.

Dopo il Sessantotto

© LAPRESSE ANNI'90 TORINO CULTURA NELLA FOTO: IL GIORNALISTA NORBERTO BOBBIO. BUSTA 4586

Nel 1968 Bobbio non ritenne di scrivere una conclusione al suo Profilo ideologico. Però, aggiunse una post-fazione alla ristampa fatta quasi vent’anni dopo (che, con mio grande piacere, fui invitato a recensire per “l’Unità”). 

Tuttora approvo la scelta di Bobbio. Il profilo ideologico dell’Italia repubblicana non era terminato nel 1968. Non lo fu neppure nel 1986. Da allora, però, sicuramente sono scomparse le ideologie nella variante italiana; vi sono state notevoli trasformazioni nelle idee, ma non è emerso nulla di comparabile per profondità al dibattito analizzato da Bobbio.

Gli italiani continuano a vivere in quella che viene definita, talvolta criticamente, la Prima Repubblica. E’ l’unica Repubblica che abbiamo. Il suo assetto istituzionale di democrazia parlamentare ha dimostrato di essere molto flessibile e adattabile, di sapere affrontare le sfide superandole mantenendo intatti i suoi principi ideali e i suoi cardini istituzionali.

L’edificio costituzionale repubblicano non è sostanzialmente cambiato nonostante siano drasticamente cambiati, anzi, spariti, i partiti che lo avevano costruito e nonostante che siano subentrati altri protagonisti: partiti, movimenti, dirigenti politici e intellettuali di riferimento ignari del passato, con scarsa e incerta cultura politica, già provatamente incapaci di progettare un futuro.

A loro in modo speciale si attaglia l’amara espressione che Bobbio voleva utilizzare come titolo del capitolo conclusivo che rinunciò a scrivere: la libertà inutile.

La libertà inutile 

 Nei miei ricorrenti incontri con Bobbio e con il suo pessimismo, nelle nostre conversazioni, eravamo consapevoli che a me spettava il compito di trovare gli elementi positivi che lui accoglieva con un sorriso scettico.

Ricordo di avergli fatto rilevare, sfondando una porta aperta, che fra i suoi molti insegnamenti c’era anche quello che la libertà non è mai inutile.

Sottolineando l’inutilità della libertà goduta dagli italiani nel dopoguerra, Bobbio voleva dire che quella libertà, di espressione, di pensiero, di ricerca, di voto non aveva apportato significativi e indispensabili miglioramenti nella cultura politica e nell’etica civile, tema che gli era caro, ma che trattava molto parsimoniosamente salvo celebrarla nei ritratti di coloro che la avevano praticata in maniera intransigente.

Da questo punto di vista, che largamente condivido, neppure i cinquant’anni successivi alla riflessione di Bobbio si sono rivelati “utili”.

Anzi. L’approdo della mia ricognizione, a fronte di problemi che non passano, di memorie non condivise, di sfide, vecchie e nuove, da ultimo, drammatica, socialmente e economicamente, la pandemia, di incapacità di comprendere e di progettare, è che quello che è davvero passato, per sempre, sono le culture politiche che avevano costruito con maggiore o minore convinzione la Repubblica e l’avevano fatta funzionare non del tutto inutilmente.

Il declino dei partiti

LaPresse

Non sono comparse nuove culture politiche alternative con fondamenta simili a quelle dei primi cinquant’anni della Repubblica. Con il declino dei partiti è scomparso uno dei luoghi di elaborazione quantomeno di idee politiche e di confronto e conflitto di posizioni e riflessioni diverse.

Persino, nella società, alla quale non possiamo meccanicamente attribuire l’aggettivo, non poche volte immeritato, ”civile”, non sembra riescano ad emergere nuove trascinanti idee.

«Liquida», come sosterrebbe il sociologo polacco Zygmunt Bauman, oppure, più semplicemente, frammentata e ripiegata a difesa di prassi esistenti che non vengono messe in discussione, la società si rappresenta, in Italia, probabilmente più che altrove, nei talk show e nelle forme telematiche di comunicazione.

Sia Bobbio sia Giovanni Sartori, unitamente a Karl Popper, da entrambi molto apprezzato, sono stati tempestivamente critici di questi sviluppi.

Per quel che conta, è evidente che non saranno i cosiddetti “social” le nuove fonti di produzione e di confronti e scontri fra idee e di (ri)nascita di culture politiche. Anzi, è chiaro che il linguaggio usato in quei contesti è un fattore aggiuntivo di indebolimento, di compressione, di confusione del profilo ideologico di qualsiasi società/sistema politico, a cominciare dall’Italia.

La frattura europea

Guardando fuori dei confini italiani potremmo notare che tutte le culture politiche tradizionali si sono indebolite, anche se non sono completamente scomparse, e che nuove “culture” stanno facendo molta fatica ad affermarsi e non è affatto detto che ci riusciranno. Tenendo in grande considerazione quello che si muove, in politica, in economia, nella società, specialmente quella europea, è plausibile sostenere che la linea lungo la quale si manifesteranno e potranno affermarsi le nuove culture politiche è quella che separa con una certa nettezza coloro che sono contro il processo di unificazione politica dell’Europa e coloro che mirano a completarne l’unificazione, coloro che desiderano un federalismo democratico e agiscono per conseguirlo e coloro che operano per un ritorno, non soltanto fisico, dei confini nazionali.

Per gli oppositori deI federalismo politico europeo è stata di recente coniata la definizione di sovranismo da loro apparentemente gradita. Però, il sovranismo non poggia su una cultura politica dotata di un elevato livello di elaborazione. Deve fare leva su un nazionalismo spesso screditato, da ricostituire. Dal canto suo, il pensiero federalista ha un retroterra e una storia decisamente molto più lunga e più complessa.

Nella fase attuale, però, neppure il federalismo può vantare un ventaglio di pensatori innovativi sui quali fare affidamento. Le prassi sembrano precedere le elaborazioni culturali (e politiche) senza le quali, tuttavia, il loro respiro è inevitabilmente molto corto.  

Un enormemente difficile profilo ideologico dell’Europa contemporanea, che nessuno ha finora tentato, darebbe maggiore sostanza alla mia affermazione sia sul grado di declino delle culture politiche classiche sia sulla necessità di nuove originali elaborazioni all’altezza di quelle del passato. In Italia sappiamo dove siamo dolorosamente approdati.

In Europa il viaggio delle culture politiche è, fra opportunità e rischi, tuttora in corso.

Non si concluderà presto offrendo la possibilità/necessità di tutti i pur molto difficili approfondimenti culturali essenziali per l’ambizioso progetto di unificazione politica democratica del continente che un giorno, mi auguro non troppo lontano, sarà appropriatamente descritto e analizzato in un Profilo ideologico dell’Europa.

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