Il calo spettacolare dei casi gravi e dei morti da Covid-19 che si sta profilando in Israele e Gran Bretagna sta mostrando al mondo un dato incontrovertibile: la tecnologia batte la prevenzione tradizionale - fatta di lockdown penitenziali - 100 a zero.

Non è un caso che a ottenere questo risultato siano due società che hanno caratteristiche particolari: puntano molto su ricerca e sviluppo, sono molto pragmatiche, sanno pianificare e usare la logistica (anche attraverso l’esercito - Israele).

Prendiamo la ricerca: con un investimento in ricerca e sviluppo pari al 4,25 per cento, Israele è il paese che investe di più al mondo dopo le Corea del Sud (4,24 per cento), che a sua volta si è distinto per aver tenuto a bada la curva del contagio con l’uso massivo di un contact tracing tecnologico.

Il Regno Unito non investe cifre stellari (1,7 per cento, con un programma per arrivare al 2,4 nel 2027), ma vanta una delle ricerche farmaceutiche più sviluppate al mondo, con un investimento di 4,5 miliardi di sterline all’anno (in Italia circa 900 milioni di euro). Ma soprattutto ha capito che quella dei vaccini era un’opportunità unica, che sarebbe andata sprecata se si fossero accumulati ritardi.

Da qui anche la decisione britannica, che da molti è stato giudicato un azzardo, di modificare gli schemi temporali di somministrazione dei vaccini, dando priorità alla copertura della popolazione con una prima dose e rimandando di qualche mese la seconda.

Un azzardo, certo, ma ponderato dalle autorità scientifiche locali rispetto a ciò che avrebbero comportato in termini di vite umane un approccio più sicuro seguito invece dall’Europa, che solo ora sta iniziando a vaccinare i suoi anziani, e che si trova costretta a ritornare alla casella ormai indigesta del lockdown.

L’idea che si possa combattere una pandemia a mani nude, con un esercito di medici “territoriali” è invece diventato il mantra che circola in Italia. Ma il modello veneto, portato agli altari nella prima ondata, non sembra aver retto durante la seconda. Forse abbiamo un problema di pensiero, prima ancora che di politiche.

Un pensiero ancora venato di cattolicesimo ancestrale che non riesce a disgiungere il concetto di malattia da quello di punizione divina, per salvarsi dalla quale serve un’adeguata penitenza e una rigida clausura.

Non certo cose terrene come la ricerca, la tecnologia, la logistica e l’avvedutezza di una amministrazione pubblica efficiente.

L’arrivo dei vaccini antiCovid, in parte finanziati dal pubblico ma realizzati da Big Pharma, sono stati accolti anche in un’Italia prostrata da un anno di pandemia, come la definitiva liberazione dal male. Ma dal vaccine day del 27 dicembre ad oggi si è pensato che tutto sarebbe filato come da programma, e che dai capannoni di Pratica Di mare le fiale sarebbero state recapitate secondo programma nei tendoni con le primule e avrebbero immunizzato tutti gli italiani entro l’estate. Ma si è trattato di un abbaglio, di cui per la verità è rimasta vittima tutta Europa.

Ancora una volta è mancata la lucidità di predisporre piani di emergenza, coinvolgere per tempo la poderosa industria farmaceutica del continente, a cui ora lo staff del commissario Domenico Arcuri telefona per sapere quanto tempo ci vuole per convertire gli stabilimenti che inscatolano antibiotici per produrre vaccini a m-RNA.

Intanto si fanno nobili proclami per sospendere i brevetti e per vaccinare “non solo noi, ma tutto il mondo”. Per carità, ci mancherebbe.

Ma sono proprio la Gran Bretagna e la stessa Israele - che finora ha lesinato le dosi ai territori occupati - ad apprestarsi ora a cedere dosi ai paesi vicini, e non certo per puri motivi umanitari.

Si incaricherà la storia a dire chi ha avuto ragione, e chi, magari per freddi calcoli geopolitici, ha salvato più vite, dentro e fuori casa. Ma già una idea ce la stiamo facendo.

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