La vicenda della madre che ha lasciato la figlia piccolissima in casa da sola provocandone la morte rappresenta un argomento del quale è molto difficile discutere. Le parole che usiamo, quali che siano, inseriscono il discorso in una cornice banalizzante.

Alcuni scelgono di non parlarne del tutto, di cancellare la notizia dal proprio orizzonte, o almeno di non seguirla attivamente. Non per disinteresse, ma per dichiarata incapacità di affrontarne il peso, e anche per non lasciare spazio alla morbosità.

Altri scelgono di parlarne, e allora analizzano la figura della madre, la sua follia e la sua malvagità, il vuoto emotivo. Altri ancora dicono che le madri che uccidono i figli non dovrebbero sorprenderci più di quanto ci sorprendano i padri assassini. Germoglia persino qualche polemica.

Da un lato chi cerca di inserire il comportamento della madre degenere in una cornice di abbandono, isolamento, degrado e cecità del prossimo, dall’altro chi invece pensa che tirare in ballo la solitudine della madre sia un modo vergognoso di ridimensionare il peso della responsabilità individuale. La bambina resta sempre sullo sfondo, come se il male racchiuso in questa storia andasse affrontato occupandosi soprattutto del carnefice che lo provoca.

Pensare alla bambina

Pensare alla bambina ci porta a visualizzare cosa può essere accaduto in quei sei giorni, a immaginare come possa aver vissuto i suoi ultimi momenti, a concepire i gesti che può aver fatto per tentare di sopravvivere, ad affrontare il mistero della crudeltà che ha subito nel corso della sua breve vita.

Non è un esercizio mentale alla nostra portata. E non dico che debba esserlo. Ma questo non significa che evitando il pensiero riusciremo a evitare il suo fantasma.

La vicenda ha ovviamente i tratti eccezionali della spietatezza assoluta, eppure non appare del tutto situata al di fuori del nostro orizzonte culturale.

C’è qualcosa che risuona all’interno della realtà, della nostra epoca, o così ci sembra, a tratti. Se ogni delitto efferato ha qualche radice nel tempo che lo produce, ci chiediamo, a bassa voce, dove si trovi la radice in questo caso.

Subito la nostra mente corre alle foto che abbiamo visto della madre. I selfie allo specchio in camera da letto, lei che indossa un abito da sera e si mette in posa. La foto all’aperto col vestito rosso.

Provengono dal profilo Facebook della donna, e sono immagini così ordinarie da apparire, alla luce dei fatti, perturbanti.

Familiari nella loro banalità estetica, nel loro essere vanagloriose come lo siamo tutti oggi, e dunque spaventose, perché affiancano l’orrore a qualcosa che ci sembra di conoscere bene, di sapere da lungo tempo.  

Qualcuno ha commentato che in quel profilo sono presenti queste foto, ma mai quelle della bambina, o della bambina con la madre, e che questo sarebbe significativo.

Il commento mi ha colpito, perché in altre occasioni diremmo che la presenza delle foto dei bambini sui social è un male contemporaneo, un segno del vuoto emotivo dei genitori che le pubblicano. Non abbiamo le idee chiare.

Il secondo aspetto che possiamo notare, un altro elemento che risuona in modo perturbante nella nostra epoca, è il modo in cui la madre ha vissuto e raccontato le sue relazioni sentimentali.

Da un lato gli impulsi irrefrenabili, dall’altro l’immediata dipendenza e l’idealizzazione amorosa. Frequentava siti di incontri, un’abitudine oggi ordinaria, viveva molte relazioni e al tempo stesso sembrava improvvisamente legarsi a idee di futuro, di amore per sempre. 

«Ci contavo sulla possibilità di avere un futuro con lui». Ma per farlo, per riuscire ad avere questo futuro, doveva investire il tempo secondo lei necessario, doveva «riprendersi la propria libertà».

La frase precedente sulla libertà, col suo tono da slogan motivazionale, da libro di autoaiuto di quarta categoria, è di nuovo fonte di brividi e di richiami culturali.

Così come l’incapacità di vivere le diverse stagioni della vita. Senza dubbio la donna non ha mai compiuto i passi necessari a trasformarla in madre.

La cristallizzazione delle esistenze dentro un’idea adolescenziale di identità è qualcosa di molto diffuso nel nostro tempo.

Ci resta addosso l’impressione di aver assistito all’eccezionale, e al tempo stesso il dubbio di trovarci di fronte a un esempio, per quanto estremo, di miseria umana contemporanea. Non siamo in grado di risolvere questo snodo.

Possiamo solo esercitare il nostro sguardo per imparare a essere più vigili, più attenti, più compassionevoli, promuovendo il senso di comunità che di sicuro manca, e che forse (non lo sapremo mai) avrebbe potuto salvare la vita della bambina.

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