È del tutto evidente che un governo debba comunicare oltre che con il parlamento con gli elettori. Il punto è fra l’usare i media come campo di tenzone permanente o l’affacciarsi a dire solo quel che serve a spiegare ai cittadini le ragioni delle scelte (oltre alle ovvie comunicazioni di servizio per avvalersi di questo o quel provvedimento).

Rocco Casalino raccomanda a Mario Draghi di non ritrarsi e di produrre un torrente di parole per non finire in un cantone mentre altri spadroneggiano sul palco e la platea applaude l’uno o l’altro. L’argomento non è sciocco, ma il suggerimento non è adatto alla natura del governo appena nato, che si differenzia dai precedenti dovendo realizzare riforme di struttura perché debito trascorso e virus si sono mangiati un grosso pezzo di futuro, e dunque è giocoforza non tirare di qua e di là la coperta corta del presente, ma inventarsene una nuova, tutta da spiegare.

Ad esempio: «Tutelare i lavoratori e non le imprese» cos’altro significa se non che alcuni capannoni spariranno mentre i dipendenti verranno impegnati in percorsi che ne garantiscano lo sbocco in lavori nuovi? Poiché sono le attività decotte che si mangiano il futuro, la frase è convincente, ma anche terribile da attuare perché il lavoratore messo nel parcheggio, anche se coccolato in ogni modo, si sentirà come un profugo derubato di storia e di diritti. E quindi sarà necessario stargli appresso passo passo, raccontargli ogni scelta, motivarlo, trasformargli lo smarrimento in gusto per un nuovo che deve comparire quanto prima.

Tutta la comunicazione rivolta a guidare i cittadini coinvolti in simili avventure esistenziali è, direbbe Draghi, “comunicazione buona” e mai si potrà dire che sia troppa. La “comunicazione cattiva”, come è cattivo il debito per una pura spesa senza un fine, è quella di tipo gladiatorio, che nella democrazia tende a straripare, anche da prima che i talk show la trasformassero in risorsa per gli appuntamenti di una tv da quattro soldi.

In Atene, madre della democrazia ideale, salvo il difetto di tenere le donne chiuse in casa, invece che i talk show coi loro conduttori c’erano quelli che davano lezioni sul modo di prevalere nelle dispute per pura forza di retorica, senza minimamente essere condizionati da eventuali dubbi su ragione e torto, utile e dannoso, a beneficio collettivo o solo di un furfante. Questa sapienza verbale si reggeva su trovatine del tipo «Se sai di una cosa allora sai di tutto perché non si può essere insieme sapiente e ignorante». Wrestling di parole, ma sufficiente a lasciare interdetto l’interlocutore e a raccogliere il favore del pubblico, equivalente all’attuale scuotere la testa in segno di diniego, alzare gli occhi al cielo o dare sulla voce qualunque cosa dica l’altro.

È evidente che un governo di riforma che cadesse in queste trappole o pensasse come Trump di governare a mezzo Twitter, diventerebbe presto “parte”, anzi parrebbe appassionarsi solo di se stesso. Con il che ti saluto il favore popolare e resterebbe solo il calore di fazione, che a tutto serve tranne che a fare le riforme.

Le occasioni di sbagliare, sia vanità o eccesso di entusiasmo di questo o quel ministro, saranno tante. Peggio ancora, l’intera macchina dei media cercherà di tenere in piedi quello che sa fare da quando nel 1964, mentre tintinnavano le sciabole, si cominciarono a scrivere articoli che parlavano di Pietro Nenni partendo dal colore dei calzini.

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