Il linguaggio è una manifestazione del potere politico. Quando quest’ultimo muta bruscamente, allora anche il lessico della nuova epoca subentra al precedente. Ma è proprio nel passaggio da un registro all’altro che si trovano le coordinate utili per comprendere cosa sta succedendo.

L’era liberale e progressista, che ha dominato il discorso politico occidentale per gran parte del Novecento e Duemila, si fondava su un vocabolario nobile: democrazia, mercato, diritti civili, libertà di espressione, accoglienza, pace. Questi ideali, declamati con enfasi nei comizi, nelle università, nei trattati internazionali e nei media, promettevano un mondo più giusto e inclusivo. Eppure, il divario tra le promesse e i risultati concreti si è rivelato un abisso, alimentando una crisi di fiducia che ha spalancato le porte al nazionalismo e al populismo.

La rottura dell’ipocrisia

Il linguaggio liberale-progressista ha vissuto la rottura dell’ipocrisia. L’eguaglianza economica predicata si è scontrata con l’aumento delle disuguaglianze tra élite cosmopolite e le classi medie e lavoratrici. Le pari opportunità sono rimaste un miraggio per molti, schiacciate da sistemi educativi sempre più elitari, dove i punti di partenza facevano la differenza per i punti di arrivo.

I diritti civili, pur ampliati, hanno talvolta generato forme di “discriminazione al contrario”, con molti penalizzati da politiche di quote etniche o di inclusione gender per pochi. La libertà di espressione, bandiera dell’Occidente, si è trovata sotto attacco da una “polizia del pensiero” che ha cercato di disciplinare il linguaggio e talvolta riscrivere la storia in nome dell’ideologia.

Anche nelle relazioni internazionali il liberalismo ha visto sciogliere la propria ipocrisia: l’era del libero scambio, dello sviluppo tecnologico, dell’esportazione della democrazia, del trionfo delle istituzioni sovranazionali, del mondo senza confini non ha certo saputo eliminare la feroce competizione fra nazioni, la forza d’urto dell’immigrazione su vasta scala, l’innesto di regimi autoritari a fronte di tentativi di democratizzazione, lo scatenarsi di nuove guerre. Nonostante l’occultamento praticato dalla retorica progressista, i rapporti di forza e la competizione tra stati sovrani sono sempre stati alla base della politica internazionale anche nell’era del trionfo della globalizzazione.

Diretti e spregiudicati

Questo scollamento tra parole e realtà ha generato un vuoto che il linguaggio nazionalista e populista ha colmato con forza. Leader come Donald Trump, Friedrich Merz, Giorgia Meloni e Viktor Orbán hanno abbandonato le perifrasi per parlare la lingua del nuovo potere: diretta, spregiudicata, a volte brutale. Altri, come Emmanuel Macron, oggi utilizzano una lingua molto diversa rispetto a quella di quando sono stati eletti la prima volta. Una vulgata molto più nazionalista e securitaria rispetto al passato.

Trump con la sua lingua a metà tra gangster e wrestling, Meloni con i suoi discorsi sull’identità nazionale, Orbán con la sua difesa senza compromessi della sovranità nazionale, Merz con un nuovo linguaggio diretto su difesa, immigrazione e relazioni internazionali: tutti usano un lessico che sembra più autentico perché non nasconde le contraddizioni del potere e soprattutto la dinamica di conflitto su cui quest’ultimo si fonda. Non si tratta di una rivoluzione morale, ma di una ricerca di realtà e verità in un mondo percepito come caotico e tradito dalle élite precedenti.

Trump vs Musk

Nelle iperboli del linguaggio si consuma lo strappo politico tra Trump ed Elon Musk, mentre sul piano della difesa del free speech era avvenuta la convergenza politica tra i due miliardari. Nel futuro prossimo, Musk userà il linguaggio per delegittimare Trump e smascherarne le promesse mancate. Tuttavia, proprio la somiglianza nel linguaggio con Trump potrebbe penalizzare l’avventura politica di Musk dandole una bassa carica di innovazione.
Ne discende che i confini tornano a chiamarsi col proprio nome; le guerre non sono più “operazioni di pace” e chi combatte per conto degli altri fa il “lavoro sporco”; gli immigrati vengono espulsi o rimpatriati e non più “redistribuiti”; gli accordi internazionali si fondano su scambi di reciproca convenienza e non su principi etici; il potere militare serve a ciò che è sempre servito, cioè a spaventare e piegare gli altri.

Naturalmente il linguaggio è un sintomo del potere, ma anche sostanza e riflette i cambiamenti delle decisioni politiche su questi temi. Effetto esteriore di un mondo governato in maniera più esplicita dal principio della forza nella sua multidimensionalità.
Il cambiamento del linguaggio politico riflette un’umanità stanca di promesse non mantenute. Il senso comune, per quanto scomodo, è tornato al centro del discorso pubblico insieme al realismo politico.

Il tornante della storia

Ne discendono due riflessioni. La prima è che i teorici del progressismo sessantottino hanno insegnato che chi controlla il linguaggio ha le leve del potere. Ciò è parzialmente vero, ma dovrebbe accendere un campanello d’allarme in quel mondo liberale e progressista che continua a parlare con un registro oramai superato e, dunque, politicamente poco efficace.

La seconda è che il linguaggio ruvido del realismo corre sempre il rischio di andare fuori controllo: promettere troppo e non mantenere, finire anche esso nel circolo dell’ipocrisia; oppure realizzare troppo nel prossimo futuro, con la forza verbale che diviene forza incontrollata nei rapporti tra nazioni e in quelli tra stato e cittadini. A ogni modo, è un cambio di registro che segna un tornante della storia dell’Occidente.

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