Un paio di notizie messe in fila e poi la domanda: ha senso collegarle in qualche modo? Partiamo dal dato più singolare: tra aprile e giugno di quest’anno poco meno di mezzo milione di italiani (485mila a essere precisi) ha abbandonato un’occupazione a tempo indeterminato. Non sono stati licenziati o messi in cassa integrazione. No, hanno sottoscritto una lettera di dimissioni in un paese dove il tasso di disoccupazione è tuttora superiore al 9 per cento.

Nei giorni scorsi il sindacalista Marco Bentivogli e l’ex senatore Luigi Manconi ne hanno scritto su Repubblica allungando lo sguardo sugli Stati Uniti e altri paesi dove un fenomeno simile è venuto assumendo dimensioni impreviste. Seconda notizia: è tornata l’inflazione.

Il vecchio nemico che tanta pena aveva prodotto nell’Italia degli anni Settanta e Ottanta, l’incubo mai rimosso della Germania novecentesca, la variabile giudicata a lungo archiviata si riaffaccia con numeri poco rassicuranti. Negli Stati Uniti a novembre ha toccato il 6 per cento. Nel caso nostro facciamo i conti con una soglia meno allarmante, il 3,8 per cento, in ogni caso quasi il doppio dell’obiettivo del 2 per cento.

Sul punto l’economista Mario Deaglio descrive il carattere originale del fenomeno nel senso di trovarci dinanzi a un problema che non rientra nelle tipologie classiche. In tempo di pandemia, la si può classificare come una variante dell’inflazione classica e delle sue motivazioni salvo che, almeno nell’immediato, non disponiamo di un provvidenziale “vaccino”.

Terza notizia: la manovra di bilancio non ha imboccato un sentiero in discesa. E qui ci potremmo chiedere dove stia la novità. Mettiamola così: un governo sorretto in parlamento da una maggioranza, per quanto eterogenea, tra le più larghe della storia deve fare i conti con le istanze varie dei partiti che lo sostengono, e fino qui la tradizione è rispettata, ma pure di sindacati e Confindustria poco convinti, per ragioni diverse e più spesso opposte, dell’impianto adottato.

Le ricadute del “cigno nero"

Ora, la domanda: esiste una qualche ragione per considerare i tre fatti ancorati al medesimo convoglio? In altre parole, ha senso pensare che la pandemia, il “cigno nero globale” comparso a Wuhan due anni fa, stia producendo, a cascata, una molteplicità di ricadute tali da intrecciare destini dei singoli, scelte esistenziali, dinamiche macro economiche e i processi decisionali di governi e istituzioni sovranazionali? Per altro in dimensioni sconosciute al passato.

Prendiamo la cosiddetta Big Quit (grande uscita), è giusto notare come si tratti di un fenomeno oggi in espansione, ma esistente da prima. Possiamo però negare (su questo pare interrogarsi Manconi) che alla base di una decisione tanto arrischiata non vi sia una diversa coscienza del legame tra il tempo sacrificato al lavoro e l’altro dedicato alla vita, in uno scambio tra il pieno realizzarsi e l’obbligo a un sacrificio di sé?

Al fondo per parecchio tempo l’etica stessa del lavoro si è vista soverchiata da un primato del denaro, nel senso del reddito. La precarietà spinta oltre margini di decenza aveva questo annesso: toglieva identità al lavoratore confinandone la personalità al procacciarsi il necessario per pagare un affitto, le bollette potendo riempire il carrello della spesa.

Si può immaginare che la pandemia - l’irrompere dopo decenni della “morte” nell’agenda politica del tempo - abbia accelerato la presa d’atto su quale possa tornare a essere la reale gerarchia di valori da preservare nella sfera quotidiana e intima di ciascuno? Se poi guardiamo al profilo poco ortodosso dell’inflazione di ora, i dati danno ragione di un mondo alle prese coi ritardi di infrastrutture e logistica nel trasferire merci da un angolo all’altro della terra.

Allora forse è vero che ragionando della manovra di bilancio in casa nostra, più che assaltare la diligenza sarebbe sensato tendere la mano (e risorse) alla parte di paese rimasta drammaticamente colpita e offesa nel tenore di vita e in un accesso alla cittadinanza e, insieme, azionare le leve di una modernizzazione non retorica del modello produttivo e di società.

Insomma, se un legame le tre notizie consentono starebbe banalmente nella presa d’atto che senza rinnovare le categorie del pensiero e, dunque, della cultura di governo, camminare in senso inverso ai bisogni di popoli e nazioni più che un rischio è già una certezza. Occuparsene per tempo potrebbe non essere una cattiva idea.

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