«Siamo realisti, non sarà questa maggioranza a cambiare la giustizia e il fisco», ha affermato Matteo Salvini giorni fa, suscitando polemiche date anche dal fatto che il leader leghista fa parte del governo che deve redigere e attuare le riforme del Piano Nazionale Ripresa e Resilienza (Pnrr), attraverso le quali passa l’erogazione dei fondi europei e la ripresa del Paese.

Le riforme del Pnrr

Il Pnrr prevede “riforme settoriali”, per introdurre regimi regolatori e procedurali più efficienti in specifici ambiti di intervento; “riforme orizzontali” o “di contesto”, cioè «innovazioni strutturali dell’ordinamento, d’interesse trasversale a tutte le Missioni del Piano, idonee a migliorare l’equità, l’efficienza e la competitività e, con esse, il clima economico del Paese» (la riforma della pubblica amministrazione e quella del sistema giudiziario); “riforme abilitanti”, «funzionali a garantire l’attuazione del Piano e in generale a rimuovere gli ostacoli amministrativi, regolatori e procedurali che condizionano le attività economiche e la qualità dei servizi erogati» (misure di semplificazione della legislazione e di promozione della concorrenza).

Infine, vi sono le “riforme di accompagnamento”, «concorrenti alla realizzazione degli obiettivi generali del Pnrr» (la riforma del sistema fiscale e quella della rete di protezione sociale dei lavoratori).

Il recente decreto semplificazioni e governance ha disposto un articolato meccanismo, attraverso varie strutture tecniche, per il monitoraggio circa la realizzazione dei molti progetti del Pnrr. Ma per ottenere gli impatti previsti sarà necessario verificare anche la concretizzazione delle riforme indicate dal Piano. In particolare, quelle per «colmare il divario con la frontiera efficiente della PA, migliorare il sistema giudiziario riducendo i tempi dei processi e aumentare la concorrenza sui mercati potrebbero comportare un aumento del PIL nel lungo periodo superiore a 3 punti percentuali».

Per valutare il progresso nella realizzazione di investimenti e riforme, consentendo l’erogazione dei relativi finanziamenti UE, nel Pnrr sono precisati obiettivi da raggiungere a certe scadenze nei prossimi sei anni. Come spiega l’Osservatorio dei conti pubblici italiani, gli obiettivi di tipo quantitativo sono definiti “target”, quelli di tipo qualitativo “milestone”, ed entrambi riguardano sia riforme sia investimenti. Il numero di target e milestone è più elevato per le riforme “abilitanti” e “orizzontali”, mentre è inferiore per altre.

«Le milestone del Piano sono prevalentemente concentrate nella prima fase di realizzazione», ma molte «sono piuttosto vaghe», anche a causa della «natura stessa degli interventi richiesti», e ciò determinerà «un elevato grado di soggettività nel valutare se le azioni intraprese sono adeguate ad ottenere i risultati desiderati. Tra l’altro questo potrebbe comportare complesse discussioni in futuro tra governo italiano e Commissione Europea». I target invece porteranno «più certezza in fase di valutazione», ma «sono concentrati negli ultimi due anni (…); ciò vuol dire che la maggior parte delle azioni pratiche, che consente oggettività nella valutazione, è lontana nel tempo».

Cosa significa “fare le riforme”

In concreto, “fare le riforme” significa innanzitutto emanare tutti gli strumenti di regolazione necessari per consentire alle norme di operare. Essi sono previsti dallo stesso Pnrr: dai decreti legge, per gli interventi più urgenti, alle leggi delega, per quelli di più ampia portata, da attuare mediante decreti delegati, i quali poi possono richiedere ulteriori atti (decreti ministeriali e/o regolamenti).

Dunque, non basta scrivere un testo contenente gli elementi essenziali di una riforma per considerarla “fatta”: perché essa produca effetti spesso servono altri provvedimenti per definirne i dettagli operativi, tecnici e di altro tipo.

Senza tali provvedimenti, che danno attuazione alle riforme, esse possono restare lettera morta. Non sempre e non tutte le norme sono autoapplicative, cioè possono essere immediatamente operative senza ulteriori atti. E se una serie di procedure “burocratiche” «per accelerare gli interventi cruciali nei settori chiave» (secondo il Piano, «circa 200 procedure critiche saranno semplificate/ridefinite entro il 2023, e 600 entro la fine del Pnrr») sono state semplificate e, quindi, velocizzate dal decreto appena emanato, senza bisogno di provvedimenti attuativi o con pochi di essi, le riforme “orizzontali” invece ne richiederanno diversi, già indicati dal Pnrr, come detto. Ma l’Italia ha dimostrato in passato di avere difficoltà ad emanarli.

La situazione attuale

La misura di tale difficoltà sta nei numeri indicati nella relazione del Sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Roberto Garofoli, del 29 aprile scorso, sul monitoraggio dei provvedimenti attuativi della legislatura in corso. «L’attuazione delle disposizioni normative è una delle fasi più importanti e delicate del complesso procedimento legislativo» - ha spiegato Garofoli - «spesso, infatti, dopo la pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale di una legge, è necessaria l’adozione di provvedimenti attuativi da parte dei singoli ministeri per l’individuazione di modalità applicative della misura prevista o di dettagli tecnici». Ma sussistono palesi ritardi: al 13 febbraio 2021 (data di insediamento del governo Draghi) lo stock dei provvedimenti della legislatura non ancora adottati era pari a 679, poi ridottisi a 598, cui si sono aggiunti i decreti attuativi previsti da norme dell’attuale governo. Dei 1.185 provvedimenti attuativi della legislatura in corso, il 45,7 per cento è stato adottato, il 54,3 per cento invece no. Le conseguenze dei ritardi si traducono in «immobilizzazioni di risorse finanziarie, stanziate non ancora utilizzate». Basti pensare al decreto legge dell’agosto scorso, contenente misure di sostegno e rilancio dell’economia. «Di tutte le misure economiche ivi previste» - spiega Garofoli - «solo il 51 per cento è autoapplicativo, mentre il 49 per cento necessita di provvedimenti attuativi». Al 28 aprile 2021 ne erano stati adottati il 36,8 per cento, cioè oltre 5,2 miliardi stanziati in via d’urgenza ad agosto 2020 erano ancora fermi. Appaiono palesi le conseguenze che potrebbero scaturire dalla mancata attuazione delle riforme del Pnrr, se pur varate.

A una domanda sulla realizzazione della riforma del fisco, date le divergenze politiche esistenti, Draghi ha affermato di avercela fatta «abbastanza spesso» e che «stavolta ce la farà il governo». Chissà se potrà farcela anche il governo seguente, dato che buona parte dei provvedimenti attuativi delle riforme spetterà al prossimo esecutivo. In occasione della relazione di Garofoli, nel Consiglio dei Ministri è stata condivisa «l’esigenza di attenuare la tendenza al rinvio a decreti attuativi prediligendo normative autoapplicative». Se Draghi vuole mettere in sicurezza il Paese, tenga presente tale esigenza.

© Riproduzione riservata