Per la politica e l’opinione pubblica sembrerebbe che il ritorno alla crescita economica dopo un decennio di stagnazione e la crisi da Covid sia un problema risolto: sono arrivati i fondi del Pnrr, Piano nazionale di ripresa e resilienza. E se torna la crescita, anche il debito pubblico diventa sostenibile. L’ostacolo principale era l’approvazione del piano da parte della Commissione europea; ora che è stato approvato, e presto arriverà la prima tranche dei fondi, gli ostacoli non sarebbero più di natura economica ma politica: fare le riforme con un governo sostenuto da forze politiche contrapposte e frammentate.

Anche ammettendo che la spesa pubblica finanziata dal Pnrr abbia un effetto moltiplicativo superiore all’unità, ovvero che 100 euro di spesa inneschino un aumento del Pil maggiore di 100 e duraturo nel tempo – e personalmente ne dubito – il successo economico del Piano non dipende solo da tipologia e natura degli interventi e quantità di fondi erogati, ma anche dalla sua esecuzione. Ma l’esecuzione sfugge al radar del consenso: alla peggio se i risultati non saranno quelli sperati, se ne riparla fra sei anni: per la politica, un’era geologica.

Ma i rischi di esecuzione ci sono, e sono seri: costi eccessivi; normativa e pubblica amministrazione inefficiente; ed eccesso di ottimismo sull’impatto della transizione ecologica.

I rischi esterni

Come già sottolineato su queste colonne, c’è stato un forte aumento dei prezzi delle materie prime e dei materiali di base che non è incorporato nei progetti già deliberati (parte degli investimenti pubblici del Pnrr sono in verità vecchi progetti), né si sa che effetto avrà su quelli ancora da approvare.

Questo apre l’annoso problema delle clausole di revisione dei prezzi (ovvero allungamento dei tempi di realizzazione, sprechi, contenzioso, corruzione), trasferisce all’estero una parte maggiore del valore aggiunto creato dal Pnrr (non produciamo tutti gli input a casa nostra) e fa diminuire la redditività attesa dagli investimenti, con effetti negativi su moltiplicatore.

Non si può sperare che l’aumento dei prezzi dei materiali di base sia transitorio: anni di investimenti insufficienti hanno ridotto la capacità di aumentare rapidamente l’offerta, aggravato dal forte aumento della domanda indotto dalle politiche fiscali espansive d’emergenza.

A questo si aggiungono le interruzioni nelle catene di produzione e le situazioni critiche nella logistica nel mondo che stanno creando colli di bottiglia nella produzione industriale e forti aumenti nel costo delle componenti (vedi la scarsità di semiconduttori e i ritardi nelle spedizioni).

Mancano simulazioni di quali potrebbero essere gli effetti di tutti questi fattori di rischio sui costi e risultati degli investimenti del Pnrr.

Il rischio appalti

Il secondo problema, sono le procedure di appalto. Lo si vede come un problema squisitamente giuridico ma è spesso dovuto alla mancanza di capacità e professionalità delle stazioni appaltanti (che sono un numero eccessivo) nel definire i bandi, stendere i capitolati e verificare il rispetto delle condizioni contrattuali.

Cambiare la norma, come si sta facendo con il nuovo Codice degli appalti, o abrogarla sostituendola con una pletora di commissari, come il governo ha fatto per i progetti già avviati, non risolve dunque il problema.

Senza contare i potenziali conflitti e inefficienze generati dalla posizione di Ferrovie e Anas (oggi fuse in un’unica società) che sono al tempo stesso la maggiore stazione appaltante e il principale beneficiario dei fondi del Pnrr.

Il rischio europeo

European Commission President Ursula von der Leyen listens to speeches during a plenary to mark International Women's Day at the European Parliament in Brussels, Monday, March 8, 2021. (AP Photo/Francisco Seco, Pool)

Ma è dalla Commissione che, ironicamente, potrebbe venire il maggior rischio all’impatto del Pnrr sulla crescita. Questa settimana la Commissione ha licenziato una serie di provvedimenti e proposte di direttive per imprimere una forte accelerazione alla transizione ecologica, stabilendo una tempistica e degli obiettivi di emissioni nocive molto più ambiziose che nel resto del mondo.

Il rischio è che si sottovaluti il costo della transizione per l’economia e se ne sopravvaluti l’effetto sulla produttività a lungo termine; senza neanche la garanzia di una riduzione del riscaldamento globale vista la mancanza di coordinamento con Cina e Stati Uniti, le maggiori fonti di emissioni inquinanti.

Per accelerare la riduzione delle emissioni la Commissione agisce su quattro livelli. Aumenta il costo dell’inquinamento modificando il sistema dei certificati Ets (Emissions Trading System), che si stima dovrebbero raddoppiare di prezzo nel prossimo decennio.

Il sistema funziona così: tutte le industrie inquinanti devono comperare in un’asta competitiva i certificati, ognuno dei quali autorizza a produrre una certa quantità di emissioni, entro il limite fissato dalla Commissione. Alla fine dell’anno devono essere restituiti tanti certificati quanto le emissioni effettivamente prodotte, pena il pagamento di multe salate.

Esiste un mercato libero in cui si possono comperare certificati da chi ne ha in eccesso rispetto all’inquinamento prodotto. La Commissione inoltre stabilisce un fondo per stabilizzare il prezzo dei certificati in caso di crisi e alloca certificati gratis ad alcune industrie e settori che di fatto sussidia.

Ora la Commissione vuole eliminare l’attuale 30 per cento di allocazione gratis all’industria inquinante (come raffinerie, acciaio, cemento, o chimica), e assoggettare agli Ets il trasporto aereo, marittimo, su gomma (auto e autocarri) e il riscaldamento domestico; in quest’ultimi casi l’obbligo di acquisto dei certificati graverebbe su chi acquista all’ingrosso gas e carburanti. Il risultato è che cittadini e imprese dovranno pagare di più per i prodotti energetici e per i manufatti il cui ciclo produttivo fa maggior uso di energia.

Le frontiere dell’inquinamento

Per evitare il carbon leakage, lo spostamento di produzioni dove i criteri sono meno stringenti, o avvantaggiare le importazioni da questi paesi, vengono proposti dazi all’importazione (Carbon Border Adjustment Mechanism), in modo da assicurare l’aumento generalizzato del costo dei combustibili fossili, input e manufatti che ne fanno uso, al fine di scoraggiarne l’uso.

La riduzione delle emissioni viene rafforzata dai limiti complessivi, e vincolanti, posti a ogni paese dall’Effort Sharing Regulation, e che copre settori al di fuori degli Ets, come agricoltura, silvicoltura e trattamento dei rifiuti.

Infine, si aggiunge una stretta sugli standard di emissione che, per esempio, potrebbe rendere nel tempo le auto benzina e diesel poco competitive, quanto a costi di produzione, rispetto a quelle elettriche.

Tutto questo peserà sui bilanci familiari, rallentando la dinamica dei consumi; senza contare eventuali proteste (già viste coi gilet gialli francesi). E l’industria vedrà comprimersi i propri margini, e quindi la propensione a investire. Non possiamo conoscere quanto questi elementi potrebbero ridurre l’impatto del Pnrr sulla crescita; né mi sembra ce ne sia grande consapevolezza.

Il problema di fondo è che la politica ha presentato il Pnrr, e la transizione verde di cui è parte integrante, come una specie di manna dal cielo, che migliorerà l’ambiente, porterà l’Italia fuori dalle secche della stagnazione, aumenterà la produttività e renderà il debito pubblico sostenibile, senza rischi e costi. Dimenticando che non esistono pasti gratis.

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