Ciò che sta accadendo nelle piazze e nella società italiana ha qualcosa di inedito. Che fosse in arrivo la collera sociale lo si sapeva. Che fosse pericolosamente ampio lo iato temporale che separa la promessa di un piano di ricostruzione dal suo finanziamento e dalla sua esecuzione era noto.

Che le organizzazioni criminali si godessero la ingenuità con cui tutti continuano a pensarle nella loro dimensione folclorico-geografica tradizionale e hanno sottovalutato la loro capacità di costruire rapidamente strategie finanziarie e industriali capaci di surclassare la cultura bolsa del capitalismo nostrano era evidente.

Che le forze che chiameremo per comodità – e pur dando ragione al ministro Peppe Provenzano che teme una inflazione minimizzante del termine – “fasciste” vellicate dalla parte più irresponsabile della destra italiana non fossero svanite con la fine dell’egemonia salviniana sulla Lega lo si poteva presumere.

Dunque che tutto questo si saldasse in un coacervo esplosivo come quello che sta assaggiando le piazze in questi giorni poteva essere capito e temuto: ed ora che è arrivato va compreso e sventato.

Il disastro che la pandemia – non il governo – causa alla ristorazione in questi giorni che preludono ad un lockdown europeo su vasta scala, non è abbastanza per spiegare la capacità di manovra e di azione dei gruppi che hanno dimostrato di poter mettere a ferro e fuoco il centro delle grandi città in una geografia (Napoli e non Palermo, Torino e non Milano, Roma e non Bologna) che dovrebbe far riflettere.

Non può essere la longa manus delle mafie sulla catena produttiva del food a giustificare la rapidità di un fenomeno che, per citare Luciano Lama «non è la ribellione di una parte pur piccola del popolo», ma l’allusione ricattatoria e minacciosa alle istituzioni democratiche che si fa vedere possibile, si frena, si precisa.

Come ha spiegato il procuratore antimafia Cafiero De Raho, si sono infiltrate e saldate nella protesta i gruppi antagonisti, gli ultras della destra “calcistica” delle tifoserie violente e la mano invisibile della criminalità che è in grado di fornire quel “ristoro” per eccellenza che è il comperarsi tutto vuoi tramite il prestito usuraio vuoi a prezzi per essa vantaggiosi a pochi semestri dalla fine dell’emergenza.

Una saldatura inedita: e di rara pericolosità, perché nell’immaginario del cittadino pensoso quelle tre minacce all’ordine e alle istituzione stanno in zone diverse. Costui pensa che – per dirla con nomi del giornalismo – le minacce a Paolo Berizzi vengano da ambienti diversi da quelli che costringono a vivere sotto scorta Paolo Borrometi e che hanno mandato assolti gli aggressori di Carlo Alvino.

Invece in queste “notti italiane” livide sono proprio quelle tre istanze che si stanno avvicinando e si sono avvicinate pericolosamente: e più del cittadino pensoso, è oggi la stabilità e la vigilanza del governo e del rapporto governo-parlamento che devono garantire che si interverrà con tutta la forza necessaria a spegnere il focolaio di una infezione che non meno insidioso del Covid.

Che le società occidentali usciranno cambiate dal Covid ormai lo dice anche chi ha una laurea in sociologia online: ma la peculiarità italiana – sempre in mezzo anche adesso che la faglia delle relazioni internazionale si è riposizionata nel Mediterraneo orientale come due secoli fa, sempre fragile nelle sue istituzioni e nella sua rappresentanza politica anche se per ragioni del tutto diverse da quelle degli anni Settanta o Novanta – dice che il nostro domani non dovrà solo misurarsi con ciò con cui si dovranno misurare tutti – diseguaglianze, reinvenzione dell’economia, pagamento dei debiti di questa fase: ci sono questioni più antiche e più storiche che rendono le istituzioni democratiche un bene che ha bisogno di una protezione maggiore di quella che esse possono offrire.

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