Dieci anni fa l’Italia assistette ad un singolare esperimento politico. Mentre i partiti tendevano a uniformare le loro proposte di fronte a una crisi economica globale, qualcuno promise ai cittadini un nuovo modello di partecipazione in cui condividere e decidere direttamente in merito alle loro stesse proposte. Un decennio dopo, quell’esperienza è in crisi proprio nel momento in cui l’Italia conosce il suo momento di maggiore disaffezione alla politica. Non soltanto diserta le urne, i sondaggi rivelano che una buona percentuale degli italiani semplicemente è indifferente a chi e come li governerà.

Eppure, la voglia di partecipare attivamente non sembra essere diminuita. Questo ci porta a una prima considerazione: forse la disaffezione verso la politica non è dovuta tanto alla mancanza di argomenti o di scelte (mai tante come oggi), ma soprattutto alla mancanza di spazi di partecipazione pubblica attiva.

Perché quando si allestisce un laboratorio di idee, dando alla comunità la possibilità di essere proattiva e prendere parte al discorso pubblico, i cittadini si fanno avanti. E se nella rete gli algoritmi tendono a raggruppare le opinioni convergenti, in un forum o una tavola rotonda tra persone reali, la pluralità di pensiero deve trovare modo di convivere.

La politica del Dopoguerra era ben consapevole della necessità di creare questi spazi di confronto: nelle feste di partito, negli incontri con la cittadinanza, di fronte a fabbriche in sciopero o nelle proteste. Era un modo anche per stimolare il cittadino nel trasformarsi da spettatore ad attore della società, creando una propensione alla partecipazione. Oggi creare spazi simili è più difficile, ma forse ancora più necessario. Dobbiamo, però, considerare almeno tre fattori affinché questi strumenti vengano resi efficaci.

Tre fattori

In primo luogo, dobbiamo tener presente che è la necessità che crea lo spazio, ma le necessità sono complesse e interconnesse. Le persone tendono a mobilitarsi sull’urgenza di bisogni e di desideri. Occuparsi del reddito minimo, non sembra la stessa cosa di battersi per lo ius scholae. Il primo ha a che fare con una disuguaglianza sociale impellente, il secondo con un’idea di civiltà. Sono due narrazioni che ci sembrano differenti, eppure un dibattito partecipativo pubblico deve essere capace di abbracciare entrambi questi aspetti, sentiti come ugualmente contingenti.

La pluralità del dialogo deve essere bidirezionale: non si usa lo spazio solo per manifestare il proprio bisogno, o esprimere la propria protesta di fronte alla politica, né al contrario questo diventa un posto dove si ascolta passivamente un oratore che illustra i propri programmi. Perché la partecipazione sia realmente attiva deve esserci una collaborazione finalizzata alla creazione di proposte.

Infine questi spazi devono diventare comunità. Un agglomerato di persone che vivono di prospettive e desideri simili è una “famiglia”, ma non basta, diventa comunità quando queste persone trasformano quei bisogni e desideri in azioni. Dopo la disponibilità nel condividere le idee, ci deve essere la precisa volontà di un’azione: un progetto in cui condividere il cambiamento.

Riuscire a costruire spazi con queste caratteristiche sarà una necessità per le forze politiche e per chiunque abbia a cuore il progresso civile. Difendere la democrazia non significa solo difendere il diritto di voto: è anzitutto accettare la complessità della diversità di chi la compone, riconoscendo che quella diversità ha bisogno di luoghi dove esprimersi e diventare produttiva. Se non sarà la stessa politica a realizzarli, allora saranno i cittadini a pretenderli e chissà a quale altro esperimento potremo assistere questa volta.

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