Dopo quattro anni da amministratore delegato Unicredit, Jean-Pierre Mustier lascia. I veri motivi dell'improvvisa decisione non sono chiari. Partiamo da un punto: per una banca oggi è dura guadagnare quanto chiede il mercato, senza farcire il bilancio di commissioni sulla vendita di prodotti che al cliente non servono, o addirittura nuocciono.

Perciò le banche sono spesso valutate una frazione del patrimonio netto, come a dire che per il mercato quel patrimonio non esiste. Tenere assieme tutto è arduo.

Quanto alla vicenda, pare che Mustier rifiutasse di accollarsi Monte dei Paschi di Siena (Mps), da qualche anno in un'ospedale pagato dai contribuenti.

Nella tesi c'è del vero, ma non è tutto, e non tutto è vero. I dinieghi di Mustier avevano anche scopi tattici; egli avrebbe forse preso infine Mps, ma con forti aiuti statali, come ha fatto Intesa San Paolo con le banche venete nel 2017.

Anche il cda di Unicredit, però, avrebbe preteso una ricca dote, che la rendesse “neutra” per Unicredit; pure per i suoi membri, il patrimonio per finanziare gli asset senesi doveva venire dal pubblico - nuovo capitale o benefici fiscali - per 5 miliardi.

Nemmeno una proposta preliminare è però approdata al cda, anche perché sulla “dote” il Movimento Cinque stelle al governo fa, se non le barricate in nome delle vecchie battaglie da Vaffa Day, smorfie di disgusto.

È diffusa anche all'estero l'idea che causa delle dimissioni sia il possibile matrimonio con Mps, anche in vista dell'arrivo alla presidenza Unicredit di Pier Carlo Padoan, che da ministro aveva presieduto al salvataggio di Mps; gioca qui una diffidenza verso l'Italia che spesso scatta quasi per riflesso automatico. Diffidenza purtroppo in parte motivata, ma a volte non disinteressata.

Conta forse di più che Mustier sia contro le aggregazioni casalinghe per principio, mentre il suo cda guarda con interesse; le vuole per non perdere terreno su Intesa, che ha appena acquistato Ubi.

Il pessimismo sull’Italia

La contrarietà di Mustier deriva invece dalla negativa esperienza di altre fusioni e dal suo pessimismo sull'Italia; atteggiamento per molti versi comprensibile, ma inadatto a diffondere consensi al suo operato, tanto più necessari in un gruppo la cui lingua principale Mustier non parla. Anche sul fronte interno il Ceo non era molto popolare, giusto o no che fosse.

Il cda puntava a una fusione italiana, guardava invece all'estero l’amministratore delegato. I timori sull'Italia spiegherebbero la sua idea di quotare sul mercato le attività estere del gruppo. In tal modo, secondo gli aruspici, si sarebbe facilitata una fusione internazionale, gradita a Mustier, lasciando fuori beghe (e sofferenze) nostrane e consentendo di fondere i resti italiani di Unicredit con altre banche.

Il disegno pare non piacesse al cda, come un'altra idea di Mustier: impegnare parte del capitale eccedente acquistando azioni proprie. Un'operazione gradita forse a molti investitori, perché avrebbe alzato gli utili per azione o Earnings per Share (Eps). Il disegno è parso però fuori tempo, frutto di pura ingegneria finanziaria e adatto alla finanza pre-2008.

Le divergenze fra Mustier e il cda, insomma, toccavano i fini stessi della banca, con l’amministratore delegato concentrato su taglio dei costi e utili per azione, mentre per il cda Mustier trascurava il mestiere tradizionale della banca.

Il cda ha forse capito quel che Mustier non voleva, ma non quel che voleva; pareva dicesse, come Eugenio Montale:

“Codesto solo oggi possiamo dirti,
ciò che non siamo, ciò che non vogliamo”

Il cda, che dà le deleghe e le può revocare, pare stesse sondando candidati alternativi a Mustier, che di suo non è tipo da star fuori dalla porta col cappello in mano; difatti la porta l'ha sbattuta.

Mustier, con i suoi spigoli, è estraneo al nostro establishment, il che è per chi scrive un qualche titolo di merito.

Il principale dissenso col cda sta forse nella sua tendenza a soddisfare gli azionisti in nome della teoria dello shareholder value, per cui scopo dell'impresa è remunerare gli azionisti, mentre per il cda vengono prima i depositanti e i clienti cui la banca ha prestato denari. A voler vedere tutto nero, il primo difenderebbe i propri compensi mentre i secondi sarebbero proni ai diktat statali.

La prova dei fatti la darà la scelta del successore. Vedremo se il cda agisce, com'è suo dovere, nell'interesse della banca o se ha deciso di suonare la musica scritta a Roma, lasciando che le spese le paghino gli azionisti.

La Repubblica Italiana ha diritto di perseguire i fini ritenuti giusti, non di farlo costringendo i privati a scelte che spontaneamente eviterebbero. Accade in altri rilevanti casi, si spera non qui.

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