Occorrono decisioni. Il governo decida, decida sulla base di dati e programmi, e ce li spieghi. L’opposizione faccia il suo mestiere, si opponga, e controproponga. Ogni logica della decisione implica una scelta tra opzioni alternative, entro un quadro di riferimento condiviso (nel nostro caso, il quadro costituzionale). Le alternative devono essere chiare, motivate e generalmente si presentano in una logica binaria; passo dopo passo, si approva una scelta e di necessità se ne boccia un’altra. Scegliere è difficile, comporta assunzione di responsabilità e rischio di insuccesso. E’ così sempre nella vita, figuriamoci in guerra.

Ma siamo in guerra? No, la guerra è cosa diversa. Ma la pandemia assomiglia a una guerra perché come la guerra è uno stato di eccezione. E lo stato di eccezione rivela l’essenza della sovranità, là dove l’ordine costituzionale dei poteri si concentra sul governo, potere esecutivo allo stato puro, in difficile equilibrio con gli altri poteri. Il problema si è posto sempre nelle guerre combattute dai regimi democratici, quando limiti e controlli devono esserci, ma devono anche riposizionarsi. 

Non sembra che oggi ci sia gran chiarezza su questo punto. Il governo Conte decreta, semmai dialogando, o battibeccandosi, con i poteri locali, e con le “delegazioni dei partiti della maggioranza” (che istituto è mai questo?). Non dichiara un progetto chiaro e motivato. Per vincere la guerra occorrono strategie, analisi dei fronti, pianificazione dell’industria bellica. A questo pensano gli stati maggiori, e sono dati riservati. Il nostro governo si è circondato di esperti e “tecnici”, che ovviamente non sono organi elettivi e non hanno potere decisionale (non esistono i tecnici democratici): nella babele delle proposte, senz’altro feconda nella sua varietà, non si capisce cosa esattamente propongano, in quale ordine, e che uso faccia il governo delle analisi e delle proposte. Intanto c’è chi (blandamente) lamenta l’uso eccessivo dei Dpcm come un attentato alle prerogative del parlamento. E come funziona l’opposizione nello stato di eccezione? L’ “union sacrée” – bella immagine da prima guerra mondiale - non è facile da gestire in regime parlamentare. Per ora, la protesta rabbiosa davanti a Montecitorio, la critica feroce a singoli provvedimenti, e la richiesta che appena finita la buriana si vada ad elezioni è solo patetica afasia. Intanto antagonisti e fascisti sfasciano le strade invocando “libertà” (dei duecento significati accertati della parola, questo merita attenzione specifica). Insomma, i soggetti dello stato di diritto e dell’ordine costituzionale stentano a trovare il loro posto. Come accade appunto in guerra.

Siamo indulgenti se il governo arranca. Sta succedendo a molti governi nel mondo. Speriamo di cavarcela. Ma da noi qualche problema c’è. Le singole scelte, oltre che chiare e motivate, devono anche essere inserite in un quadro coerente, in un progetto “politico”. Basti dire, per non rimaner nel vago, che decidere la chiusura dei bar, quella delle palestre o dei teatri, oppure decretare la didattica a distanza alle ultime classi scolastiche – o a tutte – implica una conoscenza dei percorsi ed egli effetti del contagio, e quindi una scelta tutta “politica”, anche se basata su dati “scientifici”, tra salute e prodizione, tra scuola, cultura e svago, e poi ancora, risalendo per li rami, tra mercato e stato, tra diritti individuali e sicurezza collettiva, sanità pubblica e privata, tra piccola e grande impresa, nonché tra amministrazione centrale, regionale e comunale. 

L’ansia da mediazione

Ora, la dimensione della scelta è profondamente estranea all’”ideologia italiana”, che è avvolgente, consociativa, onnicomprensiva (“cattolica”). L’ordine costituzionale italiano è storicamente strutturato non su una dialettica tra governo e opposizione, destra-sinistra, bensì attorno a una convergenza delle parti affidata ad una continua mediazione. E’ una convergenza mediatrice che nel corso dei decenni ha avuto più pregi che difetti, ma che non è adatta a gestire lo stato di eccezione.

Nel Novecento, la partecipazione italiana a due guerre mondiali è stata decisa l’una da una pressione extraparlamentare, l’altra da un regime dittatoriale. Evitare simili scorciatoie è oggi un imperativo. Per fortuna non siamo a questo punto. Ma il caso ha voluto che questa pandemia sia capitata in una fase in cui la maggioranza di governo è strutturalmente basata sulla non-decisione. Lo stato d’eccezione rischia di farci dimenticare che dai Benetton a Taranto, dalla Tav al Mes all’Alitalia alle pensioni alle tasse all’immigrazione alle grandi opere e via seguitando, la non scelta è il pilastro dell’attuale edificio governativo. E non tanto per insipienza, ma perché la maggioranza – forse in sé pregevole, per certi versi salvifica  – affianca forze politiche radicalmente divergenti, e a volte senza nemmeno che ne abbiano consapevolezza esse stesse: alcune sono anticapitalistiche, nemiche della globalizzazione e anti-europee, vagamente ecologiste e giustizialiste, filo-russe e filo-cinesi, assistenzialiste, poco edotte di cosa sia democrazia rappresentativa e rule of law, e altre sono eredi di un socialismo democratico sviluppista, laico e “cattolico di sinistra”, francescano (nel senso del pontefice), filo-americano, filo-industriale e filo-operaio.

L“impossibilità di scegliere” propria dell’antropologia italiana e del suo ordine costituzionale, la mancanza di rigore della sua cultura, si concretizza dunque nella precisa, storicamente determinata non-scelta che sorregge questa maggioranza. E se era già difficile immaginare prima del Covid19 che questo assetto potesse portare dinamismo, “ripresa”, risultati, e non andare oltre un costosissimo galleggiamento, un declino triste, figuriamoci oggi.

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