Chi teme che con il prossimo vertice nominato da Giorgia Meloni la Rai ridiventi l’Eiar del Ventennio può starsene tranquillo. La Rai non è in condizione di proporsi alcun futuro che non sia la replica dell’immobile presente cui è inchiodata da quaranta anni di ruoli fissi: nel duopolio (con Mediaset) e nelle spartizioni consociative (ricalcate sugli equilibri in parlamento).

Nelle scalette dei telegiornali cambierà, ci mancherebbe, qualche aggettivo e le liste dei fornitori vedranno qualche variazione. Ma questa è conferma e non negazione di una situazione vecchia come il cucco garantita non dalla manina di una “deep Rai”, ovvero di un corpo aziendale sapientemente trasformista, conscio di se stesso, accorto e manovriero tanto da ingabbiare la politica, chiunque gli elettori eleggano al posto di comando.

La Rai infatti è solo il versante aziendale di un ecosistema siamese dove son congiunte le due teste: dell’azienda e della politica (a 360 gradi). La commissione parlamentare di Vigilanza, con i suoi 42 (quarantadue) scranni rappresenta fedelmente questa situazione e la rende in farsa mentre s’immischia di gestione, impegna i vertici Rai in ore e ore di audizioni, fa la portalettere dei mugugni che provengono dall’interno dell’azienda o da qualche insoddisfatto appaltatore. È questa l’inerzia di visione che condanna la Rai non alla catastrofe, ma al deperimento permanente. Perché un’azienda che privata della possibilità stessa di una strategia “endogena” è condannata a evaporare.

E se a questo, e non da oggi, siamo, è perché alla politica basta e avanza una grande tv locale, detta servizio pubblico italiano, per spacciare quarti di nobiltà da tempo dilapidati e imbastarditi.

L’immobilismo dall’interno

Alla conservazione “dal di fuori” s’accompagna, va da sé, quella “dal di dentro”. Il sindacato confederale (ma aggiungiamo a occhi chiusi il sindacato giallo e l’Ugl) è schiacciato sull’angoscia che emana dai posti di lavoro degli iscritti e iscrivendi, cioè i danti causa del presente. Vale qui il ricordo della levata di scudi contro l’abolizione delle edizione notturna dei tg regionali quando, ancora nel fresco delle forze, il cda nominato al tempo di Mario Draghi, a quell’audace passo – in concreto una minuzia – si risolse.

E poi ci sono, a proposito di interno aziendale, le testate giornalistiche e il relativo sindacato di mestiere. Qui sta il nocciolo dell’eterno presente che nessuno può concepire di cambiare, sebbene da decenni paia surreale al confronto con le aziende statali consorelle di Francia, Spagna, Inghilterra, Germania, e Scandinavia. Tanta immobilità è il presupposto della spartibilità, ragione d’essere di tutto il falansterio dietro la maschera del cosiddetto “pluralismo”.

Bella parola, per carità, salvo che esclude a priori lo sforzo d’essere completi e obiettivi – pur sapendo che obiettività è un termine sfuggente – nel mentre che le carriere s’agganciano alla fazione e non al rapporto con il pubblico (quello che ronfa a casa e non sta in Commissione a vigilare). In nessun luogo della Rai come nelle testate il morto afferra il vivo, perché la lottizzazione dei partiti anni ’70, trasferita per inerzia a quelli attuali, sequestra in grande parte le risorse finanziarie, tecniche e professionali ancorandole all’oggi e sottraendole al futuro.

Vertici venturi e falso movimento

Meloni e i vertici Rai prossimi venturi tutto questo se l’aspettano, e anzi c’è da pensare che vi anelino, in attesa di dedicarsi a qualche ammuina trasformista. Trapuntata da conati pedagogici affidati alla fame di visibilità del conoscente di passaggio, dall’avvicendarsi di talk show sempre più stinti, dalla fuga di nomi di spicco presi a bersaglio in tante polemiche passate, e dunque scalpi da esporre agli occhi di qualche coorte elettori. Ma nel complesso, molto falso movimento che solo l’opposizione non mancherà di prendere sul serio. Ben che vada, essendo alla guida di un carro senza ruote, passeranno il loro tempo a ottenere dal governo il minimo necessario per pagare i dipendenti e sostituire i macchinari più consunti.

Ovviamente tutto quel che abbiamo scritto sparirebbe d’un sol colpo se intervenisse una riforma in stile inglese a stabilizzare (contro i ribaltoni) il vertice aziendale, a pianificare con certezza pluriennale le risorse, a mandare i membri della commissione di Vigilanza a far le leggi nelle aule anziché giocare al piccolo dottore con l’azienda.

In quel caso saremmo tra i più solleciti all’applauso, se s’avanzasse una Meloni che azzittisca Berlusconi e le sue cose, impugnasse la spada della riforma strutturale e trasformasse la Rai in una Bbc al centro del mar nostro. Giusto riscontro alla statura di un’opposizione che non si perda nella caccia ai Meloncini. E se i nuovi capi, nominati e responsabilizzati dalle nuove regole all’inglese, dovessero, per loro sovrana decisione, scucire e ricucire l’azienda per davvero, che riesumino, se vogliono, anche il nome Eiar.

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