Fedez è un cantante, un artista come si presenta nell’ormai famosa telefonata con gli organizzatori del concerto del primo maggio? O è anche qualcos’altro? Vorrei guardare il caso di cui si discute in queste ore da una prospettiva diversa, un po’ a prescindere dal merito, sul quale non c’è moltissimo da dire: personalmente condivido il sostegno di Fedez per la legge Zan e penso che se alla Rai non piace trasmettere un concerto organizzato dai sindacati sul cui palco si parla di politica, nessuno la costringe a farlo. Fine della discussione di merito.

Mi interessa di più la questione del potere di Fedez e del modo in cui lo usa o comunque lo può usare. Federico Lucia, 31 anni, detto Fedez, canta, fa televisione, è protagonista di una specie di reality show permanente che è il racconto della sua vita famigliare, con la moglie Chiara Ferragni e i figli Leone e Vittoria.

Su Instagram conta 12,5 milioni di follower. Apprendo dal suo profilo che ha “scelto personalmente” sei smalti semipermanenti della linea NooN by Fedez. Immagino che lo smalto inquadrato per gran parte del video della telefonata con gli organizzatori del concerto appartenga alla selezione.

Quindi Fedez è contemporaneamente tutte queste cose: un protagonista dell’intrattenimento musicale, televisivo, radiofonico con il suo podcast Muschio Selvaggio e ovviamente social; un testimonial pubblicitario, per esempio di Amazon Prime; un palinsesto umano; l’equivalente social di un canale televisivo.

Trasmette sé stesso, prevalentemente, e inserisce all’interno marchi con cui in alcuni casi ha rapporti commerciali.

Informazione e politica

Da un po’ di tempo al mero intrattenimento ha iniziato ad aggiungere spazi di informazione, o per meglio dire di advocacy, cioè nei quali sostiene una causa di rilevanza politica legata all’attualità. Ha lanciato campagne di donazioni a favore del San Raffaele di Milano durante il Covid, di recente si è occupato del Ddl Zan con un’intervista al deputato del Pd Alessandro Zan.

Per darvi un’idea delle proporzioni, una puntata di un talk show di prima serata viene vista da poco più o poco meno di 2 milioni di persone, l’intervista di Fedez a Zan conta già 4,1 milioni di visualizzazioni.

Sono diversi  gli influencer che contano milioni di follower, pochi quelli che si occupano di politica o di attualità: prendere posizione è sempre un rischio che può alienare una parte di pubblico e ridurre il valore commerciale della popolarità. Il film con Giulia De Lellis che interpreta sé stessa a fianco di Fabio Volo può magari non piacere ai critici, ma certo non farà perdere pubblico all’influencer.

Tanti artisti, negli anni, hanno usato la visibilità che ottenevano per sostenere cause spesso nobili. Talvolta hanno pagato un prezzo, perché magari sono stati esclusi da palchi nazional popolari come Sanremo, in altri casi ci hanno costruito una carriera.

Il caso di Fedez però è diverso. Se fosse soltanto un artista, avrebbe rischiato molto di più nella sua trattativa con la Rai e la società di organizzazione del concerto. Invece è stato fermo e intransigente, perché la carriera di Fedez non dipende certo dal salire o meno su quel palco e neppure dall’inimicarsi, eventualmente, qualche impresario o capo struttura Rai. Se invece fosse stato un cantante tradizionale – che so, un Daniele Silvestri – il prezzo eventuale di una sua insubordinazione alla richiesta di discutere l’intervento avrebbe potuto essere più alto.

Se Fedez fosse un giornalista e la sua intervista all’onorevole Zan fosse stata trasmessa da un canale televisivo tradizionale, invece che via Instagram, Fedez non avrebbe potuto apporre in calce al profilo la pubblicità degli smalti. E neppure fare il testimonial di marchi di abbigliamento o di qualunque altro prodotto. I giornalisti non possono fare pubblicità, men che meno in modo surrettizio.

E quando Fedez decide di pubblicare una versione con alcuni tagli – non decisivi – della telefonata con gli organizzatori del primo maggio, sta gestendo una vicenda personale in massima trasparenza o sta facendo qualcosa di più simile al lavoro di giornalismo d’assalto della trasmissione Report di Rai3?

Echi berlusconiani

Se Fedez fosse un imprenditore dell’intrattenimento che organizza il suo palinsesto su una televisione, avrebbe vincoli di par condicio sotto elezioni, in alcuni contesti dovrebbe ospitare punti di vista diversi, separare in modo chiaro pubblicità e contenuto. E dovrebbe avere una certa cautela nel gestire i rapporti con la politica. Oggi Urbano Cairo non può presentarsi dagli schermi di La7 e dire «Alle elezioni Comunali di Roma votate Tizio Caio come sindaco».

Fedez, invece, può dare indicazioni di voto, fare campagne, trasformare il potere digitale in potere reale. Lo ha fatto, senza riuscire a vincere, in occasione del Festival di Sanremo. Sia lui che la moglie, Chiara Ferragni, hanno usato il loro massiccio seguito social per spingere i follower a sostenere la canzone di Fedez e Francesca Michielin nel voto popolare.

Tutto lecito, ovviamente. Ma colpisce che nella democrazia dei cantanti si siano replicate in un attimo e senza polemiche le dinamiche che tanto abbiamo criticato nella democrazia dei cittadini durante il ventennio dominato da Silvio Berlusconi: se chi controlla i media e può influenzare le preferenze degli elettori compete con altri candidati che invece non dispongono degli stessi strumenti, il confronto democratico risulta falsato.

In un passato non lontano, prima che il matrimonio con Chiara Ferragni lo consacrasse come influencer, Fedez si era anche impegnato in una tradizionale battaglia di advocacy politica e lobbying. Sosteneva lo sviluppo di un sistema di gestione dei diritti di autore tramite la società Soundreef alternativo al monopolio della Siae. Oggi, con il seguito digitale che si ritrova, la Siae non avrebbe speranze.

La concentrazione di potere 

Abbiamo imparato in questi ultimi anni che il problema delle nostre democrazie con le piattaforme digitali non è come Facebook, Twitter, Google o Amazon usano il potere. Il problema è che ne hanno troppo. I progressisti di tutto il mondo non si indignavano quando Barack Obama chiedeva aiuto ai manager di Twitter, Google e Facebook per la sua campagna elettorale: la causa era nobile, portare alla Casa bianca il cambiamento e il primo presidente afroamericano. O quando Jeff Bezos si comprava il Washington Post: altra causa nobile, salvare il monumento del giornalismo di inchiesta dal declino.

Però poi Donald Trump ha vinto grazie al micro-targeting su Facebook, e dal suo account Twitter ha aizzato i suoi che hanno assaltato il Campidoglio, infine i vertici delle piattaforme hanno dimostrato di poter silenziare perfino un presidente degli Stati Uniti in carica.

Progressisti e liberali hanno capito che c’era un grosso problema: il fatto che le piattaforme digitali non rispondessero alle vecchie e noiose regole dell’editoria o della televisione o che rivendicassero di poter fare tutto perché animate da  buone intenzioni (il famoso slogan di Google era “don’t be evil”) era in realtà l’arrogante pretesa di essere al di sopra e al di fuori delle leggi.

Tutto quello che vale per le piattaforme vale anche per chi su di esse ha costruito le proprie fortune. Troppo potere concentrato in un solo individuo è sempre pericoloso, se questo potere poi è e rivendica di essere al di sopra delle regole allora è doppiamente pericoloso.

Perché è vero, come dice Spider-Man, che da un grande potere derivano grandi responsabilità. Ma non è mai sano per una democrazia che sia il potente a decidere da solo quali sono quelle responsabilità e come può esercitare quel potere. E non può essere un argomento sufficiente dire che Fedez ha usato quel suo potere in favore di una casa che oggi molti – non tutti – i progressisti sostengono.

Una delle grandi conquiste della nostra civiltà è stato sostituire il governo delle leggi a quello degli uomini, con leggi decise a maggioranza e nel rispetto di alcuni principi di fondo condivisi. Rimettersi all’arbitrio, anche di chi è animato dalle migliori intenzioni, è sempre un passo indietro.

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