Presi da Mario Draghi e dal ridisegno delle mappe politiche, nessuno bada al tic tac fatale che annuncia il vicinissimo rinnovo del Cda Rai che ciclicamente pare voler smentire la possibilità di un ruolo utile e proattivo dell’azienda quasi che in parlamento e fuori se ne dia per scontato un destino non dissimile da quello di Alitalia. Tuttavia qualche testardo si sorprende che il medesimo parlamento voglia Draghi a garantire il Next generation Eu e contemporaneamente brighi per perpetuare il “Past” generation project dei due miliardi all’anno che la Rai ci costa. Perché mai come oggi la Rai sarebbe indispensabile per correggere il “fallimento del mercato”, sia sul piano politico-culturale sia nello sviluppo produttivo della intera filiera audiovisiva.

Legame settario

Sotto il primo aspetto il fallimento è costituito dalle incrostazioni di pubblici e di idee che azzoppano e fanno pericolosa la attuale “democrazia mediatica”. Il fenomeno riguarda ogni paese (basta l’esempio delle tribù contrapposte nel video e nel paese di Cnn e FoxNews negli Stati Uniti). Di tanto in tanto anche da noi le statistiche dell’auditel, elaborate da Studio Frasi di Milano, colgono il legame settario, costante ed esclusivo fra alcuni programmi e i loro pubblici specifici. Ad esempio, nel campo dei talk show politici, abbiamo i suburbani con titolo di studio medio-basso che si sganasciano per il Joker Mario Giordano che fa il matto; le anime urbane e molto coltivate che si rispecchiano ovviamente in Giovanni Floris; i parrocchiali che si raccolgono sotto il manto di Paolo Del Debbio; gli assembleari che preferiscono Corrado Formigli. La cerchia di Rete4 e quella di La7, a loro volta si danno le spalle prese dai refrain che ne confermano le idee. Qualcosa di analogo avviene anche con le fiction, a seconda che a trasmetterle sia Rai 1 invece che il Biscione, perché i canali attuali sono essi stessi totem identitari. Questa è la realtà di fatto, figlia naturale della televisione del marketing, ed ecco perché un servizio pubblico dovrebbe dedicarsi a sparigliarla mediante una innovazione ininterrotta che il canone consente.

Quanto al tema dello sviluppo soccorrono le ricorrenti analisi di Agcom e Mediobanca secondo cui gli operatori Ott (Amazon, Netflix, e così via) tendono ad accentrare in pochi paesi le produzioni di fiction, cartoni, format e documentari, in base a economie di scala e incentivi tributari. Sicché l’Italia rischia di fungere da mercato di consumo con conseguenti «fenomeni di desertificazione dei lavori a elevato contenuto intellettuale». A contrastare la corrente, lo dimostra da decenni la stessa Bbc, serve che l’azienda pubblica funga da leva all’affermarsi della produzione nazionale indipendente, capace di imporsi in giro per il mondo. La Rai qualcosa fa, ma destinandogli appena (e pare già un miracolo che accada) il 10 per cento dei 1.600 milioni del canone, mentre il resto si disperde a mantenere la baracca fossile del pluralismo lottizzato.

Sono questioni non da poco quando ci si affanna per dare ai giovani una prospettiva di futuro e dunque l’ottica del Next generation Eu c’entra, eccome. Ma forse non è il caso che sia Draghi, come governo, ad affrontarle. Non che non ne sia capace, ma il problema nasce e sta nel parlamento e nei partiti, e solo qui può essere risolto. Sempre che, punte sul vivo dalla sfida del draghismo, le lucertole lottizzatrici vorranno mostrarsi capaci di trasformarsi all’occorrenza in draghi e – con quattro norme facili da scrivere – porre la Rai sopra le parti. Finalmente e nel reciproco interesse loro, oltre che nostro.

© Riproduzione riservata