La riforma delle pensioni del presidente Macron in Francia ha generato un intenso e diffuso malcontento che ha portato ad un’ondata di scioperi e manifestazioni. La decisione del governo Borne di mettere la fiducia sul provvedimento per evitare le forche caudine dell’assemblea nazionale ha fatto precipitare la situazione.

Il fatto che il governo si sia salvato dalla mozione di sfiducia per soli nove voti testimonia che le modalità di approvazione della riforma abbiano creato forti malumori anche nei deputati più vicini all’esecutivo.

Come scritto da Francesco Saraceno su questo giornale, la scelta del governo francese rischia di polarizzare ancora di più il dibattito politico in Francia e, purtroppo, di portare ancora più voti ai partiti di estrema destra, che già riscuotono ampio consenso nel paese.

Come funziona la riforma

Associated Press/LaPresse

Ma in cosa consiste la riforma Borne-Macron? È vero che i lavoratori francesi sono viziati come sostenuto da una certa stampa italiana?

 Il nocciolo della riforma è l’innalzamento progressivo da 62 a 64 anni dell’età di accesso alla pensione, con 43 anni di contributi per poter accedere alla pensione a tasso pieno (50 per cento dello stipendio).

 Con la riforma, l’età pensionabile francese si allinea alla media nell’Unione europea, una scelta apparentemente naturale dato l’aumento tendenziale della speranza di vita.

Tuttavia, il peso della riforma sarà assorbito soprattutto dai lavoratori con un livello di studi più basso, che hanno iniziato a lavorare prima, e che quindi dovranno aspettare altri anni prima di maturare i diritti alla pensione, mentre l’impatto sarà lieve o quasi nullo sulle categorie professionali con un livello di studi più elevato.

Considerato che i lavoratori meno istruiti hanno un’aspettativa di vita più bassa, la riforma Borne-Macron è regressiva e aumenterà le disuguaglianze sociali.

La riforma era davvero urgente come sottolineato dal governo francese? No. La riforma segue infatti altri interventi che hanno già riequilibrato il sistema pensionistico francese. Il deficit stimato del sistema pensionistico - prima della riforma Borne-Macron - si attestava a un massimo dello 0.8 per cento del Pil a trent’anni, con una spesa massima prevista in rapporto al Pil stimata al 14,7 per cento nel 2035 (fonte Cor e Ofce).

In Italia, dopo la draconiana riforma Fornero, la spesa per pensioni dovrebbe raggiungere nello stesso anno, il 16 per cento del Pil secondo le previsioni del ministero dell’Economia.

Si potrebbe poi obbiettare che l’urgenza della riforma derivi dall’esigenza di un risanamento dei conti pubblici francesi.

Attualmente la Francia ha un deficit pubblico pari al 4,9 per cento del Pil mentre il debito pubblico è a circa il 113 per cento del Pil.

Tuttavia, il peggioramento dei conti pubblici francesi è principalmente dovuto allo sforzo per assorbire i contraccolpi dell’emergenza Covid, più che il risultato di uno squilibrio strutturale. Infatti, il rapporto deficit/Pil nel 2019 era al 3 per cento mentre il debito si attestava al 97 per cento.

Perché le pensioni dei lavoratori meno ricchi dovrebbero pagare l’aggiustamento dei conti pubblici? Sarebbe stato più giusto finanziare la riduzione del deficit attraverso un aumento delle imposte in carico alle fasce più abbienti della popolazione, che hanno potuto accumulare risparmi durante la pandemia.

Le alternative

APN

La riforma era migliorabile? Sì. Come scritto da Thomas Piketty, la riforma manca di progressività,  dato che alza l’età pensionabile in modo uniforme senza tenere conto del livello del reddito, della categoria socio-professionale, o, ancora, degli anni di contribuzione.

Più  in generale, questa riforma, sembra essere figlia di un’impostazione di politica economica neo-liberale ammuffita (o della fine del secolo scorso, secondo Piketty e Stefano Ungaro) che non affronta i nodi economici cruciali del nostro tempo: l’aumento delle diseguaglianze economiche, l’emergenza climatica e la bassa crescita. Ciò può spiegare la dura opposizione a questa riforma che esacerberà ulteriormente l’ingiustizia sociale.

La lezione da trarre dalle proteste che infiammano la Francia è che ogni intervento di aggiustamento dei conti pubblici deve ridurre le disuguaglianze e indicare esplicitamente come le risorse liberate andranno a rilanciare una crescita sostenibile che affronti la crisi climatica.

Considerando che in Francia e in Italia, il 5 per cento più ricco della popolazione paga un’aliquota fiscale effettiva inferiore al resto della popolazione ed è responsabile della stragrande maggioranza di emissioni di gas serra, ci sono ampi margini di intervento per riequilibrare i conti pubblici mentre si persegue la giustizia sociale e ambientale.  

© Riproduzione riservata