La società telefonica AT&T dismette la partecipazione in Warner Media (gli studios Warner Bros, i canali HBO) per fonderla con Discovery (canali tematici tv). Amazon, già nei media con Prime, acquista gli studios MGM. Disney, dopo aver acquistato la 20th Century Fox da Murdoch, ha lanciato un servizio streaming per raggiungere direttamente il consumatore (anche per i nuovi film, in contemporanea con le sale cinematografiche).

Liberty Media ha diversificato dai contenuti media tradizionali per comperare la F1 perché lo sport è diventato un contenuto da distribuire come un film o un format televisivo; spiega l’interesse degli americani per le squadre di calcio europee, dopo aver fatto incetta di basket, baseball e football negli Usa.

In Francia, due società televisive, M6 e Tf1, si fondono creando un gruppo col 70 per cento di audience, antitrust permettendo. E in UK , la spagnola Telefonica fonde la sua compagnia telefonica e attività nei media con quelle dell’americana Liberty Global, per competere con l’ex monopolista BT. Vivendi, che possiede la tv di Canal + (e primo azionista di Tim) scinde Universal Music, con il catalogo di artisti più vasto al mondo, in una nuova società valutata 33 miliardi. E la francese Banijay (partecipata anche da Vivendi e De Agostini) ha da poco acquisito di Endemol per diventatare il maggior gruppo di produzione indipendente fuori dagli Usa.

Nel mondo dei media e delle comunicazioni è ormai in corso una rivoluzione. Ma in Italia siamo fermi a 20 anni fa: al duopolio Mediaset-Rai, al servizio pubblico come teatro della politica, al dibattito sulla rete unica e alla Legge Gasparri. Eppure, non si avverte desiderio di cambiamento, necessario per almeno due ragioni: media e comunicazioni sono tra i settori con la maggiore crescita, e con una forte componente tecnologica, quindi trainante per la produttività; e determinanti per il modo in cui utilizzeremo gran parte del nostro tempo libero.

I contenuti non sono tutto

Tre gli elementi rilevanti di questa rivoluzione. Dopo l’uscita di AT&T dai media, nessuna delle tre società grandi telefoniche americane ha interessi nella produzione di contenuti. L’accesso ai contenuti per incentivare l’uso delle proprie reti a danno della concorrenza non pare una strategia economicamente valida.

I contenuti sono il valore aggiunto: chi li ha detiene ha un’ampia scelta di canali distributivi in concorrenza fra loro (tv, streaming, sale cinematografiche, podcast, smartphone) e quindi trattiene la fetta più grossa dei margini.

La società telefonica può comperare l’esclusiva dei contenuti per sussidiare la propria rete, come sta facendo Tim con Dazn, (o BT con la Premier League), ma rischia di pagare troppo: lo dimostrano le valutazioni sempre più depresse dei telefonici.

Neanche comperare il produttore dei contenuti, come aveva fatto AT&T, funziona: perché sono mestieri diversi e perché sottrae risorse allo sviluppo del 5G, dalle grandi prospettive e dove le compagnie telefoniche hanno un vantaggio comparato. E questo vale anche per Tim.

Verso le media company

L’unica strada di successo per le società di comunicazioni (cavo o wireless) sembrerebbe la loro trasformazione in media company, come ha fatto Comcast, dove il business originale dei cavi sta diventato ancillare ai contenuti delle patecipate Universal Pictures e Sky: e ora il mercato scommette che potrebbe virare anche su Viacom (gli studios della Paramount), o su produttori indipendenti come Lionsgate o Amc Networks.

Il secondo elemento è la stretta analogia tra televisioni e società telefoniche: entrambe sono diventate prevalentemente meri distributori di contenuti, che incorporano gran parte del valore aggiunto.

Photo by: STRF/STAR MAX/IPx 2021 5/26/21 Amazon buys MGM Studios for $8.45 Billion. STAR MAX Photo: Amazon and MGM logos photographed off multiple Apple devices.

In più la tv ha lo svantaggio di subire nella distribuzione la concorrenza di internet (che veicola i contenuti direttamente ai consumatori), mettendo in crisi il suo modello di ricavi: perché la pubblicità sui loro canali varrà sempre di meno, non potendo profilare gli utenti come Google o Facebook, e perché l’utente non può scegliere cosa vedere a differenza della rete. Inoltre, il modello pay tv è di fatto superato dalle piattaforme di streaming (quella che di fatto è diventata Sky).

La fine della tv

Anche per le televisioni l’esclusiva per la distribuzione di contenuti è troppo costosa per essere remunerativa; e trasformarsi in una media company è finanziariamente impraticabile per via delle valutazioni depresse rispetto a chi produce contenuti.

Negli Usa è successo l’opposto, ovvero i grandi media hanno comperato i tre maggiori canali televisivi facendone proprie appendici: Abc della Disney, Cbs di Viacom e Nbc della Universal. Da noi Mediaset non riesce a trovare una strategia vincente per uscire dal declino della pubblicità tradizionale: i flop con Endemol e Vivendi; il progettato spostamento in Olanda che ha valenza solo per la governance; o la partecipazione in ProSiebenSat di cui non sono ovvie le finalità visto che lo società tedesca deriva metà del risultato operativo da e-commerce, siti di incontri, e intrattenimento digitale che non rientrano nei piani di Mediaset (scalate e fusioni sono impraticabili, visto che ProSiebenSat vale più di Mediaset).

Quanto alla Rai, fino a che rimarrà al centro degli interessi della politica è inutile anche parlarne. Né si può contare sul vincolo di bilancio per imporre una svolta visto che c’è il canone e, per certe aziende, l’aiuto di stato ad oltranza come insegna Alitalia.

Troppa concorrenza?

Il terzo elemento è la discrasia tra regolamentazione e struttura di mercato. Negli Usa ci sono tre società telefoniche; in Europa, con un’economia simile, tre in ogni Paese. È il risultato della regolamentazione che voleva portare concorrenza dove prima agivano monopolisti di stato. Ha funzionato bene; ma ora, bisognerebbe cambiare incoraggiando le fusioni sia interne sia transnazionali, per creare gruppi in grado di competere con gli americani e finanziare gli investimenti necessari nel 5G e rete. Perché è cambiata la natura della concorrenza: assicurata orizzontalmente dai vari canali di distribuzione, e verticalmente dai produttori di contenuti.

Stessa cosa per le televisioni. Negli Usa ce ne sono quattro, e nessuno si preoccuperebbe se al prossimo giro scendessero a tre. L’attenzione è invece tutta per società come Google o Facebook perché in un settore i cui confini si sono allargati a dismisura e si sovrappongono, quello che conta per la concorrenza è il potere di mercato nel suo complesso, non i ricavi specifici o il numero di utenti di ogni segmento. Un cambiamento che la Francia, con la fusione tra Tf1 e M6, parrebbe aver recepito.

Da noi la Legge Gasparri è ancora formulata sulla base dei ricavi pubblicitari (quando ormai prevalgono abbonamenti e pay on demand), il canone e la separazione tra tv e Internet cucita sulla base degli interessi di Mediaset, di Rai e della politica del tempo. Una legge per la quale la Commissione vuole ore aprire una procedura di infrazione. Bisognerebbe cambiare: ma l’argomento sembra cryptonite, per qualunque governo.

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