Impressioni a caldo dopo il lungo discorso di Enrico Letta, candidato unico alla segreteria del Pd e quindi eletto senza problemi. C’è un’idea di partito e un’idea di paese, inevitabile che debbano andare insieme.

L’idea di partito: invece di cominciare il dibattito interno da alchimie interessanti solo per i suoi dirigenti – quando fare le primarie, come gestire le correnti, ecc. – Letta prova a imporre un’idea diversa da quella che ha dominato in questi anni. Invece che un partito degli eletti, una specie di oligarchia che trova l’unica legittimazione nel potere interno invece che negli elettori, Letta propone un partito aperto, che faccia parlare i giovani e tante altre cose che abbiamo già sentito mille volte.

L’aspetto interessante è che Letta indica anche alcuni strumenti per raggiungere questi obiettivi: tra i tanti dare più ruolo ai giovani, abbassando l’età del voto a 16 anni e creare una specie di università democratica per una formazione permanente sia dei militanti che dei dirigenti (una cosa che Letta sa fare e ha fatto, con la sua Scuola di politiche in questi anni).

Certo, anche Beppe Grillo una volta ha lanciato l’idea del voto ai 16enni, ma poi i Cinque stelle hanno votato quota 100, la controriforma delle pensioni che dimostra un disprezzo completo per la parte più giovane dell’elettorato.

Comunque, di sicuro Letta sa che il tema del voto ai sedicenni può colpire anche il mondo Cinque stelle e magari diventare una base di lavoro comune.

L’altro ingrediente del Pd che ha in mente Letta, o almeno quello che a me sembra più rilevante, è che il partito deve prima scegliere delle priorità e poi sulla base di quelle negoziare con gli altri.

Andare al governo è lo strumento per raggiungere obiettivi chiari, non un fine in sé. In questi anni il Pd è sempre stato al potere, ma neppure i suoi leader sapevano bene per fare cosa. E allora ecco alcuni punti sicuramente divisivi, per esempio lo ius soli da realizzare durante il governo Draghi, non in un futuro indefinito.

Già sento quelli che obiettano: ci sono ben altre priorità. Ma se un partito progressista non si pone l’obiettivo di abbattere la segregazione su base razziale che da anni stiamo costruendo in Italia, che ci sta a fare? Magari perderà qualche voto, ma ci sono battaglie che vale la pena combattere comunque. E poi dove li trova i voti un partito di sinistra, se così si può ancora dire, se non tra gli emarginati e gli esclusi, coloro che vengono tenuti a forza fuori dall’arena pubblica?  

Nelle parole di Enrico Letta c’è poi anche un’idea di paese. Che non è quello della Ztl cui si sono rivolti per anni Nicola Zingaretti e i suoi dirigenti, e neppure la somma di clientele che sorregge il potere locale dei vari signori delle tessere al Sud, tipo Vincenzo De Luca.

Il paese che racconta Letta è un’Italia che forse non esiste, ma di cui ci sono i germogli. Letta parla di un’Italia che può essere ma ancora non è, proiettata verso il mondo invece che ripiegata su se stessa, che parla più inglese che dialetto, che è consapevole della necessità di affrontare le grandi sfide di questa fase con strumenti nuovi.

E’ un’Italia nella quale servono le competenze matematiche e di analisi dei dati e non quelle degli avvocati, Letta lo dice in modo abbastanza netto pur con qualche delicatezza (il padre di Letta è un matematico, Giuseppe Conte un avvocato).

Letta indica una traiettoria. Che è sicuramente progressista, ma non ha bisogno di nessuna delle parole chiave nostalgiche e vuote della stagione di Zingaretti, non cerca di tenere insieme una tradizione vilipesa dall’uso strumentale e cinico che ne hanno fatto i suoi sedicenti custodi, ma ambisce a costruirne una nuova.

Il Pd è uno strano partito democratico, che ama l’unanimismo ma non il confronto, e quindi Letta arriva da candidato unico alla segreteria, investito da non si sa bene chi, scelto da quelli che pensano di poterlo anche congedare se non sarà rispettoso del loro ruolo e status. Da questo punto di vista il Pd non cambia mai, e forse per questo Letta dice «a voi non serve un nuovo segretario ma un nuovo partito».

Però di sicuro le idee di Letta e il suo approccio non sono gli stessi della stagione di Zingaretti e neanche di quella di Renzi (c’è un riferimento alla necessità di comportamenti individuali “radicali” che a quello allude).

Oggi tutti lo applaudono, ma Letta saprà di aver salvato davvero il Pd quando ci sarà una battaglia delle idee dentro il partito, punti di vista diversi che si confrontano con argomenti e dati comprensibili a tutti, invece che le faide opache che lo hanno portato alla segreteria.

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