Il nuovo governo serve in questo momento all’Italia? Non c’è dubbio. Mario Draghi è la persona migliore per guidarlo. Il governo Draghi è l’ultimo prodotto di istituzioni politiche malate? Anche.

La 18a legislatura consegna ai posteri una delle tante peculiarità della politica italiana. Con la stessa composizione delle camere, al netto di scissioni e transfughi, quindi in base allo stesso mandato elettorale chiesto e ricevuto dai partiti nel 2018, dopo il governo giallo-verde (M5s-Lega) e quello giallo-rosso (M5s-Pd), avremo il governo arcobaleno rosso-giallo-verde-blu (PD-M5S-Lega-FI). Tutti guidati da non parlamentari, scelti direttamente o comunque passati al vaglio del Capo dello Stato, cioè da una figura che nel nostro ordinamento repubblicano è chiamata a svolgere funzioni di controllo e di garanzia, le quali possono essere esercitate solo se chi ne è titolare rimane distinto e distante dalle scelte relative all’indirizzo politico del governo.

Il “governo del presidente” è il limite estremo della famosa fisarmonica, anche se è diventato una pratica ormai reiterata. Il capo dello Stato può (dovrebbe), di norma, usare i suoi poteri sui tempi della nomina e dello scioglimento per spingere o costringere i leader parlamentari ad assumersi le loro responsabilità, eventualmente per favorire la formazione di un equilibrio che giudica preferibile per il paese.

Ma la “nomina” del presidente del Consiglio è di norma l’esito di un apprezzamento da parte del Quirinale della volontà prevalente tra i parlamentari che a loro volta rappresentano i cittadini-elettori.

“Nomina” non vuol dire che “sceglie” o che deve scegliere. E quando l’articolo 92 dice che il Capo dello Stato «nomina, su proposta del presidente del Consiglio, i ministri», non vuol intendere che il presidente del Consiglio debba sottoporre la lista dei ministri al vaglio preventivo del Capo dello Stato.

Il Quirinale può (dovrebbe) semmai eccezionalmente porre un veto motivato alle indicazioni che riceve dai leader parlamentari in base a una sua interpretazione di un rilevante interesse nazionale.

L’articolo 92 non prevede che il presidente del Consiglio concordi con il Capo dello Stato la lista dei ministri. Se questo avvenisse, sarebbe la prova definitiva di una anomala sovrapposizione tra il ruolo di garante della Costituzione e l’esercizio di una funzione di indirizzo politico, che non è legittimato a svolgere.

L’interpretazione pre-repubblicana dei meccanismi di nomina del governo sembra invece talmente presa sul serio o addirittura data per scontata che il segretario Pd Nicola Zingaretti ha dichiarato di non avere dato indicazioni al presidente del Consiglio incaricato sui nomi dei ministri «per rispetto della Costituzione», come se la presenza di ministri esplicita espressione dei gruppi parlamentari di maggioranza, cioè degli unici soggetti che nel nostro sistema ottengono il voto dei cittadini, concordati tra il presidente del Consiglio e i leader di quei gruppi, sia “contro la Costituzione”, manco fossimo tornati allo Statuto Albertino.

Nella situazione data, il governo Draghi è una ancora di salvataggio. Anche il fatto che Salvini abbia riaggiustato il tiro, per l’Italia è un bene. Contribuirà a ridurre i contenuti tossici che aveva disseminato nella stagione precedente.

Consentirà di amministrare le risorse del Recovery Plan senza eccessive recriminazioni di una parte sull’altra. Ma pensare che in un anno Draghi possa fare miracoli rimettendo sul sentiero della crescita un paese con il fiato corto da decenni appare illusorio. Soprattutto, pensare che il “governo del presidente” sia una panacea è fuorviante.

Le leggi elettorali maggioritarie e riforme istituzionali tese a stabilizzare i primi ministri in carica avrebbero dovuto evitare lo zig-zag tra governi variopinti nella stessa legislatura.

Il conservatorismo costituzionale ben disseminato in ogni area politica, le rendite di posizione dei micropartiti, la paura di perdere da parte di leader fragili e la chiara preferenza per una politica debole da parte di interessi forti hanno sempre remato in senso contrario.

A chi è piaciuta la 18a legislatura fa bene, quindi, a proporre il ritorno a un sistema elettorale puramente proporzionale che, nelle condizioni date, santifica il potere di veto dei Renzi di turno, la mano riparatrice del Quirinale, i primi ministri presi in prestito fuori dalla politica per salvare la patria, le maggioranze a geometrie impazzite, con partiti destinati a fare il contrario di quanto avevano promesso al momento del voto, nessuno alla fine percepibilmente responsabile di fronte agli elettori di quello che è poi capitato.

© Riproduzione riservata