A giudicare dalle risposte raccolte in sede di sondaggio, Giorgia Meloni deve la costante ascesa delle intenzioni di voto a favore del suo partito al riconoscimento della coerenza delle posizioni da lei assunte dalle scorse elezioni politiche in poi: rifiuto di entrare nella coalizione gialloverde, opposizione netta al secondo governo Conte, rigetto assoluto dei flussi migratori, richiesta di revoca dei provvedimenti di chiusura imposti ai settori economici più colpiti dalle vicende legate alla pandemia, ristoratori e operatori turistici in primis, affermazione del «prima l’Italia e gli italiani» in ogni campo.

Coerenza

Consapevole del peso di questa immagine di intransigenza diffusa fra i simpatizzanti, inclusi quelli potenziali, la presidente di Fratelli d’Italia fa di tutto per coltivarla e rafforzarla, utilizzando i toni urlati e le espressioni corrucciate che le sono valsi qualche epiteto non proprio garbato in ambito giornalistico (come il celebre «pescivendola», a cui ha peraltro reagito con efficace ironia) ma che, a quanto pare, continuano a funzionare con la sua base. E proprio sul tasto della coerenza Meloni ha battuto quando, capito che dopo Forza Italia anche la Lega era intenzionata a salire sull’affollato carro di Draghi, si è decisa a recitare il suo non possumus, sostituendo alla proposta ormai sfumata della comune astensione dei vari tronconi del centrodestra l’annuncio di un no alla fiducia al futuro esecutivo, caratterizzato da una «opposizione patriottica», che la lascerebbe in aurea solitudine rispetto all’intero panorama partitico.

Pur essendosi premurata di chiarire che, in nome dello strattonatissimo “bene degli italiani”, il suo partito non mancherà comunque di garantire il sostegno ai provvedimenti governativi che giudicherà opportuni, con questa mossa Meloni si è immediatamente attirata i fulmini di una parte del suo mondo politico, che ha reagito con evidente irritazione. Il 6 febbraio, 24 dirigenti di vario livello, fra cui non pochi ex parlamentari di An e Pdl, hanno diffuso un appello, intitolato senza giri di parole “Perché la Destra deve votare per il governo Draghi”, in cui gli estensori affermano che, astenendosi o «addirittura negando la fiducia» al «tentativo autenticamente patriottico» dell’ex presidente della Bce, si realizzerebbe «una regressione svolta storica» sancita al momento della creazione di Alleanza nazionale, un «ritirarsi sotto la tenda e da lì abbaiare alla luna equivarrebbe a un suicidio culturale, morale e politico. Un atteggiamento che gli italiani di oggi non capirebbero e che quelli di domani non mancherebbero di condannare».

E già due giorni prima la rivista di area Nazione Futura, pur dichiarando di puntare a trovare «una strategia unitaria per non farsi dividere», aveva aperto la strada della contestazione ospitando il parere di alcuni intellettuali fiancheggiatori, convinti che un «centrodestra europeista» dovrebbe sostenere il presidente del Consiglio incaricato e non scadere nei «balbettii inutili» di chi propone di opporsi a Draghi – definito «antidoto politico» e «tenace guida tra le macerie» – «in nome di pregiudizi ideologici, formulando tesi invariabilmente complottiste legate alla stantia polemica contro l’establishment, le élite, i centri di potere».

Atteggiamenti del passato

Quanta influenza possano esercitare questi riottosi compagni di viaggio su Giorgia Meloni non è facile dire. Le loro argomentazioni sono però interessanti perché riportano a galla, in una forma neppure troppo aggiornata, preoccupazioni e modi di pensare che hanno caratterizzato l’ormai lunga storia del neofascismo/postfascismo italiano attraverso l’intero arco delle sue evoluzioni, dimostrando come alcuni dei complessi che da sempre lo affliggono rimangano attuali, ad onta degli sforzi – spesso, anche se non sempre, sinceri e convinti – di affrancarsi dall’ombra di un passato che insiste a non voler completamente passare.

Il primo di questi tic ricorrenti è quello del timore dell’isolamento. Parola a cui decenni addietro facevano sistematicamente ricorso i dirigenti del Movimento sociale italiano – prima Arturo Michelini contro Giorgio Almirante e la sinistra interna, poi prima l’Almirante della Destra nazionale e in seguito il Fini della svolta di Fiuggi contro il “movimentista” Pino Rauti ma anche, parallelamente, i moderati di Democrazia nazionale contro Almirante – per giustificare la tendenza a derogare dalle posizioni ideologiche espresse in documenti e mozioni congressuali in nome di un pragmatismo che li conduceva inevitabilmente ad andare a rimorchio di forze conservatrici e/o centriste. Anche in questo nuovo caso, rimanere attaccati alla coalizione, e soprattutto a Forza Italia, Udc e dintorni, è visto come un imperativo per rimanere nei giochi che contano.

Strettamente connesso a questa paura è il richiamo al moderatismo, a sua volta riflesso dell’ansia di non tornare a essere oggetto di campagne di delegittimazione. Sebbene gli anni Settanta siano e appaiano molto lontani dall’epoca attuale, e anche le fiammate antiberlusconiane da “popolo viola” e “girotondi” siano estinte, il timore di non essere ritenuti abbastanza ragionevoli, rispettosi del galateo istituzionale, costruttivi e disponibili alle mediazioni continua a pervadere un ambiente che ha molto sofferto dell’accusa di estremismo e che, con l’andar del tempo, ha finito col persuadersi che esibire convinzioni nette e radicali rinnovi il rischio di essere rinchiusi nel ghetto della marginalità, come accadeva al tempo in cui l’esclusione dall’“arco costituzionale” non solo aveva sbarrato l’accesso ai governi nazionali ma anche reso impossibile qualunque accordo in sede locale o partecipazione – salvo rarissime eccezioni – ai ruoli lottizzati di sottogoverno.

Dopo aver clamorosamente rotto i recinti grazie allo sdoganamento berlusconiano e goduto dei benefici della riammissione ai giochi di potere, una parte del ceto politico approdato a Fratelli d’Italia vede nell’opposizione a una formula di governo plebiscitata da tutti i soggetti che contano la premessa di un insopportabile ritorno ai tempi bui del pre-Tangentopoli.

Il doppio binario

Pur cosciente del rischio, per esorcizzarlo Meloni ha scelto una via che ai suoi predecessori – da Almirante al Fini non ancora approdato alla futura conversione liberale – era sempre stata cara (e utile): il doppio binario, o, se si preferisce, il difficile equilibrio tra due posizioni apparentemente antitetiche. Che nel suo caso si esprime nel radicalismo verbale profuso a piene mani in patria e nella veste conservatrice assunta fuori dei confini nazionali attraverso la presidenza del Partito dei conservatori e riformisti europei.

Attingendo al secondo di questi due forni, la leader di FdI si è premurata di prendere le distanze da Marine Le Pen, Salvini ed affini, pur non celando una discreta dose di simpatia nei loro confronti, e di richiamarsi a un peraltro mal definito sovranismo (che non di rado rischia di apparire come una pura e semplice riproposizione dell’antico nazionalismo) distinguendolo dal populismo, cercando di differenziarsi sia da Forza Italia che dalla Lega, per potersi meglio candidare a fare da cerniera dell’alleanza.

Sinora lo stratagemma ha funzionato, facendo di Fratelli d’Italia un polo di attrazione dei molti delusi del berlusconismo. Il no a Draghi fa temere ai suoi critici che il meccanismo possa rompersi. Costoro dovrebbero però porsi un quesito. Se FdI lasciasse scoperto il campo dell’opposizione, a chi andrebbero i dividendi dell’insoddisfazione di cui la crisi economico-sociale incubata in questo ultimo anni scoprirà i nervi nella fase postpandemica, ora che Lega e M5s hanno scelto la via dell’integrazione nel sistema?

Si è certi che gli umori popolari avversi all’establishment che hanno fornito il carburante dell’ascesa populista dell’ultimo decennio siano stati definitivamente spenti dalla nevrosi da Covid-19? Se fosse lecito dubitarne, la scommessa giocata da Giorgia Meloni potrebbe essere tutt’altro che azzardata.


Risposta a Marco Tarchi di Francesco Giubilei (Nazione Futura)

Nell’articolo La scommessa di Meloni che presidia l’opposizione e sfida il suo partito pubblicato su Domani, il professor Marco Tarchi avvia un interessante dibattito sulla decisione di Fratelli d’Italia di non aderire al governo Draghi.

Nel suo intervento viene citata la rivista del think tank Nazione Futura affermando che «ha aperto la strada della contestazione ospitando il parere di alcuni intellettuali fiancheggiatori».

Nazione Futura nasce nel 2017 come laboratorio di idee editando una rivista trimestrale cartacea diretta da Daniele Dell’Orco, un quotidiano online, organizzando eventi e iniziative in tutta Italia grazie all’apporto di quasi sessanta circoli territoriali. In questi anni ha realizzato un’importante attività di collaborazione con i partiti di centrodestra tra cui Fratelli d’Italia.

Esattamente un anno fa a Roma Giorgia Meloni, invitata da Nazione Futura, partecipava all’evento National Conservatism promosso dalla Edmund Burke foundation con i principali esponenti politici e culturali conservatori d’Europa e degli Stati Uniti. Da tempo il think tank sostiene la necessità che la destra compia un percorso in senso conservatore ma, in quanto laboratorio di pensiero, all’interno della rivista vengono ospitate opinioni tra loro differenti.

Eppure la scelta di Giorgia Meloni di non aderire al governo Draghi è tutt’altro che penalizzante, ed è corretta. Ciò non significa che la Lega, appoggiando il nuovo esecutivo, abbia intrapreso una strada sbagliata, anzi. Per quanto Lega e Fratelli d’Italia siano simili sotto numerosi punti di vista, sono in realtà due partiti differenti tra loro, la Lega è una forza politica post-ideologica con al suo interno varie anime, ha già governato con il M5s e risponde alle richieste dei ceti produttivi del nord, mentre la storia di Fratelli d’Italia è ben diversa.

Giorgia Meloni ha fatto della coerenza e del motto “mai con il Pd e mai con il M5s” la sua forza e sconfessandosi rischierebbe di perdere gran parte del proprio consenso; in secondo luogo è necessario che in democrazia vi sia un’opposizione che vigili sull’operato del governo. Non tutti gli elettori di centrodestra, infine, sono convinti del supporto a Draghi e alla lunga la scelta di Meloni potrebbe premiare. Finché non verrà attuata una seria riforma istituzionale in senso presidenzialista (una battaglia storica della destra e del suo padre nobile Pinuccio Tatarella), chiunque, persino una figura di spicco e di indiscusso valore come Mario Draghi, dovrà confrontarsi con le fisiologiche divisioni in seno al parlamento.

Senza dubbio è importante che l’opposizione di Giorgia Meloni sia responsabile ed eviti scelte oltranziste, in linea con il percorso politico-culturale costruttivo culminato con l’elezione a presidente dei conservatori europei, come tra l’altro espresso dalla stessa leader di FdI al termine dei due giri di consultazioni. Meloni, che non ha escluso l’astensione, ha sottoposto al presidente incaricato una serie di proposte concrete dalla sanità ai temi economici, passando per la gestione delle risorse del Recovery fund fino all’immigrazione. Proprio in tal senso, è imprescindibile un’attività di supporto culturale e meta politico da parte delle fondazioni e dei think tank di riferimento per promuovere un’opposizione basata sui temi e i contenuti.

Inoltre non è condivisibile l’appello firmato da vari ex An (molti di loro ex finiani): un conto è un dibattito costruttivo in seno alla destra, un altro attaccare apertamente Giorgia Meloni accusandola di «fuga dalle responsabilità» o di volersi ritirare «sotto la tenda e di lì abbaiare alla luna». La Leader di FdI ha dimostrato in questi anni le proprie capacità politiche aprendosi a nuove anime e mondi e abbracciando un’importante tradizione politico-culturale come il conservatorismo, posta in questi termini l’opposizione responsabile che si prospetta per Fratelli d’Italia potrebbe rappresentare un’opportunità di ulteriore crescita per il partito.

 

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